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Grande clamore per il battibecco fra Allegri e Adani, grande insofferenza per lo show che trascende lo sport! Proviamo però a rovesciare la prospettiva con due semplici domande: primo, cosa è successo tra un commentatore televisivo e un allenatore in uno studio televisivo? Secondo, in che tempo e in che contesto si situa il calcio?

È andata in onda una lite come se ne vedono a decine. Nella politica, nelle interviste, nei dibattiti ecc. Perché proprio il calcio, sport urlato e popolare per eccellenza, che si alimenta di arene (ricordo di antichi colossei), di partecipazione passionale, d’intemperanza sentimentale… dovrebbe essere immune dall’emotività che, per esempio, connota quotidianamente la politica? Li vedete i dibattiti, i talk show? La sentite la voce che dà sulla voce, l’interruzione perpetua, l’offesa dell’avversario trattato come un nemico? L’avete mai sentito Sgarbi urlare “capra” (per non dire peggio) a chi gli sta davanti?

Questo calcio è figlio anche di questa televisione, figlia a sua volta di questi tempi. La mezza partita di serie A trasmessa alle sette di sera, “90° minuto”, la “Domenica Sportiva”, col “prego si accomodi” oppure “ci dica come la pensa?” Sono ricordi lontani. Così come il “Processo alla tappa” di Sergio Zavoli che faceva scandalo perché Bartali esclamava “Gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare!”, rimpiazzato poi dal predecessore storico dei nostri salottini selvaggi: “Il Processo del Lunedì”, avanspettaccolo antesignano degli odierni show calcistici. E non parliamo solo di sport. Ve la ricordate “Tribuna politica” col conduttore che interrompeva chiunque osasse sforare di due secondi o provare ad alzare la voce? Il giornalista che si fosse lasciato scappare un “insomma!” o “un perbacco!” non sarebbe più stato invitato.

E dunque non sono Adani o Allegri, Caressa, Bonan o Pardo a esagerare. È l’evoluzione (o l’involuzione) mediatica e sociale, che, per altro parte da lontano. Da oltre 50 anni fa: da Mc Luhan e da Debord. Il primo coniò la celebre definizione che ormai il mondo si era trasformato “in un villaggio globale” e che “il medium era il messaggio”. Come dire: l’argomento non conta più nulla, conta il mezzo per diffonderlo e questa diffusione ci unisce tutti (almeno l’occidente) come fossimo parte di un enorme villaggio. Il secondo scrisse quel vangelo della modernità intitolato “La Società dello Spettacolo”. Ovvero: la realtà non conta se non è fotografata, filmata, trasmessa, mandata in onda. In una parola: non siamo se non veniamo rappresentati e poi “parlati”, raccontati, ripresi, commentati.

La politica è diventata uno show senza fine in cui la complessità, l’analisi, in una parola il tentativo d’una verità, viene costantemente nascosto dalle battute, dalle risse, dalle balle, insomma da una teatralità urlata ed elementare. Perché, allora, non dovrebbe diventare show uno sport, a sua volta diventato gioco e, infine spettacolo? 
Così si parla per settimane di un dopo partita e 10 minuti di una gara, così le opinioni contano quanto i fatti e gli opinionisti quanto i protagonisti. Così un labiale conta di più d’un’orazione funebre, una battuta più d’una relazione tecnica, un’estemporanea disquisizione tattica più d’una partita.

Può piacere o no, ma la spettacolarizzazione ha coinvolto ogni aspetto della nostra vita. A meno di scegliere una vita da anacoreti o da misantropi ed esserne immuni.
Diciamo però che in tutto questo perenne spettacolo, l’unico messaggio che pare non essere scalfito da alcun dubbio e aver attraversato indenne ogni cambiamento è che “se la Juve vince è un furto, se la Juve perde è giusto".