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Lorenzo Serra Ferrer. E' questo il nome di un allenatore-dirigente spagnolo, ricordato per essere brillante in panchina e sul mercato, che dal 1997 ha curato la cantera del Barcellona per scovarne i talenti del domani, in Spagna e nel resto del mondo. Così, nel 1999 è stato lui a mettere gli occhi su un 17enne brasiliano praticamente sconosciuto, diventato Thiago Motta. E alla Gazzetta racconta: "Nel marzo del 1999 andai in qualità di responsabile del calcio formativo del Barcellona in Uruguay per la Coppa America Under 17. Vinse il Brasile e tutti gli osservatori che erano lì si erano fissati su un certo Leo, che poi non ha fatto molta strada. A me invece piaceva questo centrocampista alto ed elegante. Lo avvicinai e scoprii che non aveva ancora firmato un contratto da professionista, giocava nella Juventus di San Paolo, un piccolo club formativo. Non fu difficile trovare un accordo e lo portai a Barcellona. Un’operazione economicamente assai vantaggiosa».

LE DOTI - «La tecnica di base, ottima, e poi la lettura del gioco, che a mio avviso oggi è una delle chiavi del suo successo come allenatore. Da noi si ambientò in maniera molto rapida. Un “volante” organizzatore di gioco adatto alla scuola Barça, perfetta per finire di formare questo tipo di centrocampisti. Pausa e ritmo di gioco, collocazione in campo, equilibrio della squadra: Thiago interpretava tutto a meraviglia e velocemente si è guadagnato il rispetto e l’ammirazione che poi l’hanno portato in prima squadra, passaggio che io non ho seguito perché nel 2000 divenni allenatore del Barcellona ma le cose non andarono come pensavamo così nel 2001 tornai al Betis».

IL CARATTERE - «Uno tipo di carattere, competitivo e vincente, un giovane con grande personalità. Era aperto ed estroverso ma anche molto educato e rispettoso. Più avanti ebbe qualche problema tra disciplina e vita notturna? Questa è una cosa che io personalmente non ho vissuto, ma non mi ha mai dato la sensazione che non avesse la voglia e l’ambizione di continuare a crescere per affermarsi come uomo e come calciatore, e così è stato».

SORPRESO DELLE DOTI DA ALLENATORE? - «No. Perché il ricordo che ho io è quello di un ragazzo che voleva imparare. Ha sicuramente appreso dagli allenatori che ha avuto, e anche da se stesso. Mi riferisco alle cose che ha fatto bene, e sono tante, e a ciò che è andato meno bene: infortuni ed eventuali peccati di gioventù fanno parte del suo bagaglio di esperienza e magari oggi gli fanno comodo con i ragazzi che allena ripensando a ciò che gli è successo, ripeto, tanto in positivo come in negativo. Calcisticamente poi la posizione nella quale giocava a mio avviso ha contribuito in maniera determinante alla sua formazione. Perché era il punto di riferimento della squadra, tutto passava per i suoi piedi e gestiva ogni fase del gioco molto bene. È cresciuto in una realtà molto marcata calcisticamente come è quella del Barça e poi è passato al campionato italiano che è fatto di forza e applicazione. Era un giocatore di talento e penso che la cosa l’abbia reso e continui a renderlo un tipo coraggioso nelle scelte, prima in campo e oggi in panchina. Mi sembra pronto per una grande sfida».