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Tutto ciò che è stato e tutto ciò che potrà ancora essere, inevitabilmente, concedono un'immagine a metà di questa squadra. La Juve però non è né l'approccio sbagliato in apertura dei tempi, né la furiosa reazione di appena dieci minuti finali: semplicemente, è una squadra provata dalla mole di partite e dalla paura di perdere pezzi di sé se non si rispecchia in una vittoria. E' questo, il grave e greve momento che sta per affrontare Pirlo. E' il naturale timore che accompagna una transizione, è fare i conti con le caratteristiche - e gli umori - di una parabola discendente. E con una regola non scritta ma non per questo falsa: a un ciclo finito non corrisponde necessariamente un ciclo aperto. Pertanto, bisogna lavorarci.

PROCESSO A PIRLO - Parta pure il processo a Pirlo, dunque. Sempre compatibilmente con ciò che può essere, ma rispettando allo stesso tempo ciò che è stato. Un disastro, al Do Dragao. Con la Juve frenata dalla semplicità del Porto e da quell'innaturale tendenza a non considerarsi abbastanza. E' esattamente l'insicurezza di questo gruppo a colpire, più delle disattenzioni, gravi ma fondamentalmente umane: quelle, ecco, come le spieghi? Un po' con la mancanza di dottrina, di una via da seguire, che poi darebbe un senso persino al deficit di idee. Poi con l'inesperienza di certi giocatori: di tanto in tanto si può trasformare in giusta incoscienza, però si tratta d'eccezione e mica di regola. La verità è che la Juventus è spaventata. Da tutto quello che può vincere, ancor di più da tutto quello che non può più vincere. Si alimentava di vittorie e divorava le pressioni, negli anni scorsi. Oggi le pressioni divorano Lei. Lei che non ha tempo per riflettere e rifiatare, che si lascia sballottolare dagli eventi e dai discorsi. Che a quest'appuntamento è arrivata in affanno e senza due giocatori cruciali come Dybala e Cuadrado, ma che allo stesso tempo non può nemmeno giocarsi la carta degli alibi: la merita solo chi scende in campo convinto, chi mette sostanza a prescindere dalla forma. 

GLI STESSI ERRORI - La vera sconfitta non l'ha data il risultato, l'ha certificata l'atteggiamento. Le grandi squadre non si sono mai fatte con i nomi, semmai con le attitudini vincenti. Quella di Allegri era una Juventus spietata, quella di Lippi era invece un coro di solisti meravigliosi. Pescando alle spalle, la più simile a questa versione resta quella macchiata dai cosiddetti 'errori' di Sarri. Ripensandoci, anche le parole di Pirlo a fine partita hanno avuto lo stesso sapore di un anno fa, quando ribaltare il Lione era diventata la missione, purtroppo mai diventata progetto. 'Giropalla lento', 'non siamo stati bravi a innescare gli esterni', 'perso per l'approccio sbagliato': il loop continua da 365 giorni e la Juve, quella vincente, va avanti per una sorta di obbligo di inerzia, perché costretta a recitare sempre e solo il ruolo di Juve. Che è una bella condanna, se ci pensate. Che è pure parecchio pesante. E totalizzante. Partita dopo partita, si divorano parole e azioni, si acquisiscono risultati e allo stesso tempo si incerottano le ferite. Quasi ci si dimentica dei problemi, giocando ogni tre giorni. Peccato che quelli rimangano. Fissi e dolorosi. Dall'ultimo Allegri al primo Pirlo: forse - e sottolineiamo il forse - il problema è altrove. O il problema è proprio questo (e andrebbe imputato a Pirlo): aver scelto l'ennesima strada vecchia solo per la paura di una via nuova.