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Un pareggio amaro per la classifica, ma anche venato da sottili emozioni che affondano in un senso di quella canaglia che è la nostalgia. Quando, come inviato di “Tuttosport”, si presentava l’occasione di seguire la Juventus a Lecce era sempre una domenica di festa. Intanto per la fortuna di poter tornare in una tra le più belle città d’Italia, tra gente gentile ed educata, dove si mangia e si beve bene. Eppoi perché la società salentina, in qualche modo, ha segnato in maniera positiva la storia di quella bianconera.

CAUSIO, ORGOGLIO E RISCATTO - Un nome su tutti. Quello di Franco Causio detto il Barone perché, fuori dal campo, non si faceva mai vedere senza la camicia e la cravatta. Orgoglio per la sua terra e leggenda del calcio per via di quella sua “brasilianità” che gli permetteva di trasformare una semplice partita in un evento spesso carico di magia. Orgoglioso della sua terra rappresentò, a Torino specialmente, la cartolina ideale del riscatto meridionalista al Nord dove si fece adorare dal pubblico senza necessità di smancerie o di ruffianesimi assortiti. Alla fine venne ricambiato con un “tradimento” che non si aspettava. Ci rimase malissimo ma emigrò ancora più a settentrione, a Udine, con intatta la sua dignità di “terrone” vincente.

MICCOLI, UN 'INTRUSO' ALLA JUVE - Poi venne il tempo di un altro salentino che, per certi versi, avrebbe dovuto calcare le medesime orme del Barone. Era Fabrizio Miccoli che, con la palla, anche lui sapeva incantare. Suo malgrado, però, non possedeva i cromosomi adeguati per entrare in sintonia metabolica con la monolitica e molto sabauda struttura del Palazzo  bianconero. Sui polpacci delle sue gambe aveva stampato il “tatoo” indelebile con il volto del comandante Che Guevara e mentre i compagni nel ritiro di Acqui Terne andavano a dormire con le galline lui si faceva un giro tra gli stand del Festival dell’Unità. Lo incontrai lì, una sera. Parlammo tantissimo e bevemmo insieme un paio di birre. Un ragazzo trasparente e pulito. Ma ci volle niente per capire che non sarebbe durato in un ambiente così diverso da lui e al suo modo di voler vivere la vita. Finì ancora prima di comincare. Un vero peccato.

BRIO, ANDATA E RITORNO A TORINO - Tra l’uno e l’altro, ci fu un terzo leccese che venne a impreziosire la Juventus. Un gigante di ragazzo anche lui, proprio come Causio, “allevato” calcisticamente da quel grande maestro di giovani che si chiamava Adamo. Voglio dire di Sergio Brio che arrivò a Torino appena ventenne per poi andarsi a fare le ossa e trovare Betty, la donna della sua vita, a Pistoia. Due anni e tornò alla casa madre per diventare uno fra i più grandi e invalicabili difensori centrali del mondo. E così, guardando la Juventus mentre giocava con il Lecce, proprio a Brio ho pensato e al suo decennio memorabile in bianconero. Di qui la nostalgia.

NOSTALGIA CANAGLIA - Un sentimento che, immagino, abbia stuzzicato la memoria di tutti gli autentici appassionati bianconeri soprattutto nell’istante in cui l’olandesino prodigio De Ligt è ricaduto nel vizietto di voler fare il pallavolista provocando il rigore a favore del Lecce. Anche lui alto e biondo con tendenza al rossiccio come Sergio Brio e ancora più giovane del leccese quando arrivò alla Juventus. Ma con una differenza sostanziale. La cifra da capogiro impiegata per strapparlo all’Ajax sarebbe bastata e avanzata per acquistare almeno tre “campioni emergenti” come lui in grado di usare per colpire il pallone solamente i piedi o la testa e non le mani. Soprattutto con quella grinta da “terrone fiero” che possedeva Sergio Brio. Ovviamente nella lista della Juve in salsa salentine c'è a che Conte. Ma questo è un film che meriterebbe un capitolo tutto a parte​.

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