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Rammento le tantissime trasferte fatte per raccontare della Juventus che avrebbe giocato contro il Chievo. Arrivare il giorno prima della gara e fare un giro in quella minuscola frazione di Verona, dove poi la partita si sarebbe giocata, era consolante e allo stesso tempo quasi surreale. Come atterrare su di un pianeta non sconosciuto, ma assolutamente differente da quelli che, domenica dopo domenica, attendevano per il canonico rituale del pallone. Diversamente dagli altri popoli tifosi, quello della squadra veronese rappresentava l’enclave di una passione educata e sportivamente esemplare la quale dovrebbe essere praticata sempre e ovunque, fuori e dentro ogni campo da gioco.

Tutto così diverso, per esempio, dall’attigua città di Romeo e di Giulietta dove quelli della curva targata Hellas confondevano lo spirito di una partita di pallone con una battaglia per la Guerra Santa. Nel paese dei “mussi che volavano” l’occasione calcistica, per coloro che arrivavano da fuori, possedeva tutti gli strumenti necessari per fare in modo che la vigilia e il giorno della gara fossero un autentico momento di festa, di reciproca conoscenza e di sana amicizia sotto la bandiera dello sport e non del campanile. Il Chievo non aveva ultras al seguito, ma famiglie le quali prima di ritrovarsi al “Bentegodi” organizzavano conviviale accoglienza per i tifosi della squadra avversaria. Visita guidata per le vie del paesino con soste enogastronomiche rustiche e veraci. Giochi per i bambini e palloncini colorati che fluttuavano nell’aria legati con lo spago ai balconi delle case.

Una fotografia popolare d’antan che rifletteva in maniera perfetta la filosofia del patron Luigi Campedelli, presidente dal cuore morbido e dolce esattamente come i suoi pandoro. Era impossibile non provare un senso di autentica tenerezza e di simpatia per quella gente e per quella squadra lontane anni luce dalla galassia delle “grandi” e dalle loro tribù sempre sopra le righe e talvolta fuori di testa.

Così poteva a accadere che, esattamente come successe dieci anni fa, il Chievo arrivasse a Torino per affrontare la Juventus e tornasse a casa con il saccoccia un insperato risultato di parità per tre a tre grazie alle reti realizzate dal valdostano Pellissier. Uno score che, naturalmente, lasciava l’amaro in bocca al pubblico bianconero il quale, però, non ne faceva un dramma e tutto sommato riteneva giusto rispetto all’ordine delle cose che una tantum il piccolo Davide avesse la meglio sul gigante Golia. Eppoi, suvvia, con ragazzi come Sorrentino, Legrottaglie e Perrotta non si poteva essere nemici.

Domani il Chievo scenderà nuovamente sul campo dell’Allianz Stadium per vedersela con la Juventus. Non sarà più la stessa cosa. L’incanto della magia, strada facendo, si è spezzato. Non per responsabilità della gente clivense, anche se il groppo compatto del tifo gentile, si è un poco sgretolato per via di una scissione ultras per fortuna poco consistente come numero. Molto di più, invece, a  causa della trappola modernista nella quale è finito Luca Campedelli, il figlio del patron che non c’è più e dal quale ha ereditato da tempo la corona. Un presidente che, come ebbe svelare il nostro Pippo Russo, ha deviato allineandosi con il resto del gregge il quale non sempre offre di se stesso il volto pulito e onesto. Insomma il Chievo oggi è come tutte le altre, Harry Potter è uscito dalla fiaba e i mussi hanno perso le ali. Così domani la Juventus potrà non avere pietà anche perché questo Chievo, purtroppo, non ispira più tenerezza.