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Una stupenda giornata di sole con l’aria pulita a profumata dal ponentino. Eppure avrei desiderato essere altrove. All’estremo Nord dove le montagne separano l’Italia dall’Austria. A Udine, precisamente, dove la Juventus di lì a poco sarebbe scesa in campo per giocare l’ultima di un campionato il cui finale sembrava già scritto per raccontare la consegna dello scudetto all’Inter. Per i bianconeri di Marcello Lippi soltanto un onorevole secondo posto.

Nei giorni precedenti, dalla lavagna degli inviati a Tuttosport avevo appreso che, contrariamente al solito, non avrei seguito la trasferta della Juve. Il mio nome figurava nella “casella” destinazione Roma dove, all’Olimpico, era in programma la gara della Lazio di Zaccheroni contro la squadra nerazzurra allenata da Cuper. Una sfida che, sulla carta, rappresentava l’opportunità e quasi la certezza di una passerella trionfale per i giocatori dell’Inter pronti a ricevere la sacra unzione di campioni d’Italia. Una festa che emotivamente non mi riguardava ma che professionalmente ero tenuto a descrivere come meglio avrei potuto.

Ingannai l’attesa in Trastevere destreggiandomi su un piatto di carciofi alla giudea con saltimbocca. Un bicchiere di bianco dei castelli per mandar giù boccone e la mente che scappava per raggiungere il “Là di Moret” a Udine dove i bianconeri erano in ritiro pre partita. Era il 5 maggio. Una data impossibile da dimenticare soprattutto perché frutto di fatiche liceali per imparare a memoria la poesia con la quale il sommo Alessandro Manzoni descriveva la morte di Napoleone a Sant’Elena. Un giorno che sarebbe passato alla storia per ragioni sicuramente meno colte e nobili, ma egualmente clamorose almeno per gli appassionati di pallone.

Raggiunsi lo stadio Olimpico in taxi fino a Ponte Milvio, poi proseguii a piedi. Ciò che vedevo intorno era incredibile ma significativo per immaginare quel che ci si poteva aspettare dopo. Una fiumana di persone che procedevano con sulle spalle le bandiere delle due squadre. Un solo coro: “Inter olè”. Anche da parte dei laziali, peraltro gemellati con quelli che avrebbero dovuto essere avversari per un giorno. Macchè, tutti amici e tutti a spingere con i loro cori la squadra milanese verso quello scudetto al quale, per essere ufficializzato, mancava soltanto il sigillo del risultato finale. Dentro lo stadio la bolgia dei settantamila era infernale, ma univoca. Tutti, ma veramente tutti, facevano il tifo per i nerazzurri. L’odio per la Juventus aveva abbattuto ogni tipo di barriera.

Anche nel calcio, come nella vita, esistono momenti e situazioni ai quali torna difficile dare una spiegazione logica. L’impossibile che, ad un tratto, diventa possibile e poi addirittura reale. E’ raro ma capita. Ebbene, quel giorno a Roma il teorema si sviluppò nell’arco di novanta minuti dilatandosi ancor più dell’immaginabile. Insomma, come inviato per il mio giornale, mi ritrovai a raccontare di un evento al limite del paranormale. Ancora oggi, ripensandoci, non riesco a trovare una diversa definizione per quel che andò in scena dentro lo stadio di Roma.

La radio trasmetteva della Juventus che aveva già regolato la sua pratica friulana nella prima parte della gara con i gol di Trezeguet e di Del Piero. Una modesta consolazione per terminare a testa, pensavo, che non sarebbe andata a influire minimamente sull’esito per l’assegnazione dello scudetto. Del resto con i gol di Vieri e di Di Biagio l’Inter aveva già fatto metà del suo compitino. Perplessità per le due reti di Poborsky con le quali, prima della fine dei 45’, la Lazio pareggia i conti. Nessuna scena di entusiasmo sugli spalti per i gol laziali. Nella ripresa ci si attende che l’Inter dilaghi. L’incredibile accade quando segnano prima Simeone e poi Inzaghi.

Quattro a due per la Lazio. Lo stadio è ammutolito. Paparesta fischia la fine. Ronaldo si inginocchia e scoppia in lacrime. Vieri, in trance, osserva il cielo. Cuper e i suoi ragazzi sono statue di sale. La tragedia si è compiuta. Senza uno straccio di perché. La Juve, da lontano, festeggia. E’ campione d’Italia.