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Le sue giornate, dacchè era diventato uno fra gli uomini più potenti del mondo, si iniziavano sempre molto presto. Alle sei del mattino era già sveglio e, un’ora dopo, aveva già letto i suoi quotidiani preferiti, da “La stampa” a “Tuttosport” passando per il “Financial Time”. Poi, prima di dedicarsi al canonico e irrinunciabile lavoro riabilitativo nella piscina della sua villa in collina, chiamava al telefono Giampiero Boniperti. Il “suo” presidente della “sua” Juventus. Le sorti quotidiane della squadra bianconera stavano a cuore, per Gianni Agnelli, al pari di quelle della Grande Fabbrica. Quel giorno, era il 24 gennaio di quattordici anni fa, il copione personale dell’Avvocato subì un totale ribaltamento. Alle otto e trenta del mattino, dopo una notte di sofferenze appena mitigate dalla morfina, il presidente della Fiat chiuse gli occhi e si addormentò. Per sempre. Accanto a lui, oltre al suo medico personale che lo aveva seguito nel lungo calvario provocato dal cancro alla prostata, la moglie donna Marella Caracciolo e la figlia Margherita.
Non è dato sapere come e in che modo. Fatto sta che, dopo meno di mezz’ora, la notizia del lutto eccellente era scesa da Villa Frescot e, dopo aver scavalcato la “rive gauche” del fiume Po, aveva invaso l’intera città con la velocità e la violenza di uno tsunami. Torino, per un istante, si era trasformata in un enorme villaggio di ghiaccio e i suoi abitanti erano diventati soldatini di piombo. Il “re” non c’era più e ciascuno osservata sbigottito verso la collina nel punto preciso dove ogni mattina spuntava l’elicottero sul quale l’Avvocato si dirigeva al lavoro. Il rombo di quelle pale era in qualche modo rassicurante. La gente, anche quella parte di società proletaria per la quale “Agnelli e Pirelli erano ladri gemelli”, si era sempre sentita se non protetta almeno garantita dalla presenza di un personaggio il cui peso specifico internazionale forniva comunque un senso compiuto al nome di Torino e alla sua storia di città produttiva. Era stato lui a fare avere alla città le Olimpiadi invernali come ultimo e grande regalo. Tant’è, la domenica successiva alla scomparsa di Gianni Agnelli, davanti al feretro posizionato sul sacrato del Duomo dove è custodita la Sindone sfilarono centinaia di migliaia di persone. Molte di loro indossavano la tuta blu.
Dell’Avvocato, sia durante la sua vita e sia dopo la sua morte, è stato detto e scritto di tutto e persino di più. Chi sia stato come uomo, come imprenditore, come padre e come padrone della Fiat e della Juventus è stampato sui libri di Storia anche nei particolari più minimi. Intorno alla sua figura sono stati disegnati eventi e situazioni di ogni genere e talvolta addirittura leggendari al limite della favola. Dubito che l’Avvocato sia stato veramente amato nel senso più classico del termine, ma certamente fu rispettato e ammirato per i suoi indiscussi meriti e per la sua qualità di “genio curioso” che trascendevano la sua stessa attività di imprenditore. Ebbe una quantità indescrivibile di conoscenti che gli ruotavano intorno in ogni pare del mondo. Anche tanti servi sciocchi palesemente attivi nell’odiosa arte della piaggeria. Quelli che lui, pur non potendo farne a meno, detestava al pari dell’ignoranza e della mancanza di quella classe che, paradossalmente, lui riusciva a intravedere in un onesto e libero clochard parigino. “Se non fossi nato nella famiglia che ho avuto, molto probabilmente sarei diventato un barbone”. E non scherzava quando diceva cosi. 
In compenso aveva un amico e un nemico ben dichiarati. Il suo avversario più temibile e più temuto si chiamava noia. Un avversario per lui insopportabile che tentava di gabbare attraverso l’arma strategica della “fuga” praticamente continua. Capace di spostarsi nel giro di un giorno da un Continente all’altro o soltanto da una città all’altra pur di non dover subire l’effetto della calma piatta. Soprattutto quella intellettuale. Ecco perché aveva stretto amicizia totale e irrinunciabile con il vento. Quello che, non appena poteva, andava a cercare in mare a bordo delle sue barche da sogno per farsi arruffare i capelli colore della neve e bruciare il volto illustrato da mille rughe. Un patto di amicizia eterna tra l’Avvocato e il vento. Un patto nobile suggellato da una sua frase importante ed emblematica: “L’unica cosa al mondo che non è in vendita e che non potrò mai comprare”. 
E allora, proprio nel giorno dell’anniversario della sua scomparsa, mi piace ricordare ciò che ebbe a raccontarmi qualche tempo dopo la figlia Margherita che, come ho ricordato, lo accompagnò sino sulla soglia dell’eternità. Il cielo su Torino, quella mattina, era di piombo. Le montagne nascoste dalle nubi. L’aria fredda e immobile. Ebbene, pochi istanti prima delle otto e trenta, le finestre della camera da letto dove si trovava Gianni Agnelli moribondo ma ancora vigile, si spalancarono improvvisamente dietro la spinta violenta del vento che invase la stanza. Poi, così come era arrivato, quel soffio potente se ne andò. Non da solo, però. Insieme con il suo inseparabile amico.