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Roberto Lorentini si era messo in salvo. Era un medico, juventino il giusto: "Non era un tifoso accanito, gli piaceva farsi qualche trasferta insieme ai cugini per vedere le città. Era stato anche a Basilea per la finale di Coppa delle Coppe". Quel maledetto 29 maggio 1985 era a Bruxelles, stadio Heysel. Era riuscito a sfuggire alla tragedia. Poi si voltò, Andrea Casula, 11 anni, aveva bisogno d'aiuto. Roberto gli corse incontro, e finirono tutti e due sepolti dalla bolgia: "Come medico si è sentito di dare una mano, servendo gli altri fino all'ultimo". Il figlio Andrea aveva 3 anni, e di quel giorno non ricorda nulla. Oggi, 35 anni dopo, ha raccontato a Ilbianconero.com quella tragedia vista dagli occhi di un adulto che si batterà sempre per ricordare la memoria del padre.

Quanto le fa male ricordare ogni anno questa tragedia?
"E' una ferita che non si rimarginerà mai. Ogni anno, quando si arriva a questa ricorrenza, è sempre un momento di sofferenza particolare. Io e gli altri familiari delle vittime dell'Heysel cerchiamo di dare un senso in una situazione nella quale è difficile trovarlo. Non accetterò mai di aver perso una persona cara per una partita di calcio: sarebbe dovuto essere un momento ludico, è diventata una strage. Cerchiamo di tenere viva la loro memoria attraverso alcune iniziative".

Lei è presidente dell'associazione vittime Heysel.
"E' stata fondata da mio nonno pochi mesi dopo la tragedia, con l'obiettivo di riunire i familiari delle vittime italiane per avere giustizia e affrontare il processo tutti insieme. E' un'associazione nata per fare squadra. La Uefa viene condannata come responsabile di quanto accaduto, e da quel momento in poi sarebbe diventata responsabile degli eventi che avrebbe organizzato. Prima non lo era mai stata. Dopo il processo l'associazione si sciolse, mio nonno venne a mancare nel 2014 ma io decisi di ricostituirla per portare avanti la sua lotta contro la violenza fisica nello sport. Lui si è sempre battuto in questo, e io sono cresciuto con il suo esempio. Nel 2016 abbiamo portato avanti un progetto chiamato 'Un pallone per la memoria' coinvolgendo le scuole superiori di Arezzo (dove ha base l'associazione, ndr), Bruxelles e Torino. Sono stati organizzati tornei di basket, calcio, pallavolo e seminari e incontri con i ragazzi".

L'orgoglio per il gesto di suo padre supera il dolore per la sua perdita?
"Io sono sempre stato orgoglioso di lui, è un esempio positivo per tutti. Quando con la nostra associazione andiamo nelle scuole racconto la sua storia spiegando che in un momento in cui è venuto a mancare il rispetto per l'altro, il gesto di mio padre serve per capire i veri valori della vita. L'orgoglio per quello che ha fatto prevale sul dolore".

Ha mai incontrato la famiglia di quel bambino?
"Secondo le ricostruzioni, Andrea Casula è stata la vittima più giovane della tragedia. Ho contatti continui con la sorella Emanuela, che è la vice presidente dell'associazione".

E' riuscito negli anni a capire bene cos'è successo?
"Ci sono state delle testimonianze, ma io per filo e per segno non so ancora cosa sia accuduto dettagliatamente. Mio padre però è stato insignito della medaglia d'argento al valor civile: per avere delle onoreficenze di questo tipo servono delle prove, quindi ci sono stati testimoni oculari che hanno raccontato i fatti".

Cinque anni fa disse che la Juve aveva fatto poco per ricordare suo padre e le altre vittime, oggi la situazione è cambiata?
"Fino all'avvento di Andrea Agnelli la società ha sempre tenuto nel dimenticatoio questa vicenda, forse perché c'era una coppa da preservare e la Juve ha sempre voluto riconoscersi quel trofeo. Il club avrebbe potuto fare di più, ci aspettavamo un'attenzione maggiore. Dall'arrivo di Agnelli c'è stata più sensibilità: a breve dovrebbe essere costruito un monumento alla Continassa in ricordo delle vittime; era in programma in primavera, ma con questa pandemia potrebbe volerci più tempo". 

Ha visto la foto dei tifosi del Torino che a Superga hanno reso omaggio alle vittime dell'Heysel?
"Sì, ma secondo me la morte non ha colori. Non è una morte juventina, perché hanno perso la vita anche tre simpatizzanti interisti e sette cittadini europei. E' una tragedia umana, non calcistica. Ancora oggi si strumentalizza questa vicenda, pensando che quelle 39 persone sono lo scalpo da mostrare contro il 'nemico' juventino. Forse chi fa così non sa che, mio nonno, fondatore dell'associazione in ricordo delle vittime, era tifoso della Fiorentina. Il calcio deve rimanere nello sfottò, non bisogna andare oltre".

Lei è mai entrato in uno stadio?
"Per forza, devo farlo per lavoro. Sono un giornalista, seguo l'Arezzo in Lega Pro. E' la squadra della mia città e quella per la quale faccio il tifo, anche se fin da ragazzo sono simpatizzante dell'Inter grazie a Lothar Matthaus".