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E’ stata una pace pubblica e finta, fasulla. Nedved e Marotta si sono abbracciati e baciati a uso e consumo di telecamere e fotografi, lunedì sera, alla bella premiazione del Golden Boy organizzata a Torino da Tuttosport. In realtà le parole pronunciate poche ore prima da Pavel (“se n’è andato all’Inter, nostra rivale, forse perché non è mai stato davvero juventino”) hanno creato una frattura che non sarà facile ricomporre.

 

La domanda che Marotta si è posto, avendo ascoltato quella frase così pesante e sgradevole, è stata: perché? Perché ha detto certe cose, perché non ha avuto rispetto di un uomo con cui ha condiviso anni di trionfi, perché ha voluto lo scontro? Solo ingenuità, oppure servilismo nei confronti di Agnelli, il quale al suo ex amministratore delegato l’ha giurata?

 

Marotta, soprattutto, ha ritenuto la frase assolutamente incomprensibile, se non addirittura stupida, per un motivo: non è stato lui a decidere di lasciare la Juve, è stato messo cortesemente (nemmeno tanto) alla porta. Non una scelta, bensì un’imposizione: non ti vogliamo più. E allora cosa avrebbe dovuto fare, smettere di lavorare, chiudersi in casa, oppure accettare soltanto le proposte di club amici della Juve?

 

Nedved, poi. L’uomo che nel 2001, quando era alla Lazio, non voleva andare alla Juve: “Non mi muovo da qui”, ripeteva. I bianconeri erano i grandi rivali, la squadra guidata da Eriksson aveva strappato loro lo scudetto dodici mesi prima (la celebre pioggia di Perugia…) e Pavel era un simbolo. A Roma i tifosi erano sul piede di guerra, “Nedved non si tocca!”, e lui li tranquillizzava: “Rimango”. Era giugno. Ad agosto, Cragnotti lo cedette alla Juve. E lui ci andò, firmando un ricchissimo contratto. Forse non era mai stato laziale.

 

@steagresti