Dopo la scorpacciata di scudetti senza soluzione di continuità nelle stagioni precedenti, era persino fatale oltrechè comprensibilmente logico che la Juventus iniziasse la sua corsa attuale con uno spirito diverso dal recente passato e con in testa un obbiettivo ben preciso. Vincere o perlomeno tentare anche l’impossibile pur di riuscirci quella Coppa che, per ragioni variegate, da troppo tempo risulta essere una chimera. Lo vuole la società, in primis, lo vogliono i tifosi, stanchi di aspettare, lo vogliono gli stessi giocatori i quali sanno perfettamente di venir pagati sontuosamente per il raggiungimento di questo traguardo quasi irrinunciabile.
Non esistono, comunque, due Juventus. La verità, sempre confutabile per carità, è che in lei ci sono due anime pulsanti. La prima, quella che consente alla squadra di confrontarsi in campionato con uno spirito certamente professionale, ma “affamato” in maniera soltanto accettabile. La seconda quella che, non soltanto a livello inconscio, spinge i giocatori ad affrontare gli impegni di Champions con tutto il furore necessario e con i famosi occhi da tigre di chi non vuole lasciarsi sfuggire la preda. Non vi è proprio nulla di strano in questo tipo di comportamento. Così come non vi sarà niente di strambo e di particolarmente eccezionale se, alla fine di questa nostra fiera casalinga, fosse l’Inter di Conte a rilevare l’eredità “lasciata” da una Juventus la quale, almeno si spera, avrà un motivo ben più importante e prestigioso per fare festa grande.