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La panchina d'oro è un simulacro che incarna, quando di mezzo c'è un allenatore bianconero, un viaggio di sola andata. Dall'angolo di corso Re Umberto e corso Vittorio (senza Emanuele II° perché i torinesi vanno di fretta), sul legno frusto e smangiato, con il verde della vernice sarchiato, di una panchina atta a smorzare la fatica di mille monsù e madamine accumulata passeggiando sotto i portici; a Coverciano, cittadella del calcio nostrano, laddove le panchine brillano e si rimpiccioliscono per entrare comode nel velluto blu di un cofanetto.


E' l'occasione, o forse il pretesto, per radunare le menti eccelse tra gli allenatori. “Misters” di tutto il mondo, unitevi. E se si resta in casa juventina, è il caso di ritrovare vecchi e nuovi protagonisti di una storia di panchine ed affini, antichi, vecchi, passati remoti e prossimi, quasi attuali. A debita distanza si concretizzano 7 anni vissuti alla grande, l'artefice cioè della rinascita e della conferma, insieme al maestro di gestione e reiterazione di successi. Antonio Conte, nostro capitano e Massimiliano Allegri, non viscerale e forse proprio per questo dalla durata pressochè eterna. L'umore e il raziocinio, la passionalità e la calma, l'orgoglio di appartenenza e la professionalità divenuta religione. Un bel po' di valori, non c'è che dire. Ma…


Ma manca il “convitato di pietra”, alias la società. Altra di fatto era in quel lontano 2011, quando una nuova stava per emettere i primi vagiti, all'ombra dei pennoni dello Stadium, altra è ora dopo la sfacciata, quasi sbeffeggiante, serie infinita di vittorie mai capitata in 121 anni di panchine. La società cercava uno juventino che predicasse juventinità, prima ancora che schemi. E Conte lo fece fino ad annientarsi contro l'improponibile, almeno a quel punto. La separazione consensuale (formula non altrimenti fruibile se non in chiave Fiat) a due giorni dalla ripresa degli allenamenti sanciva un record mondiale difficilmente eguagliabile, dando vita alla sostituzione più dolorosa della storia a strisce. Eppure altri avvicendamenti non si sono visti. Allegri ha retto l'impatto con un popolo sgomento ed oggi procede collezionando successi al di là di ogni ragionevole attesa, al netto degli “irriducibili”, gente che anche di fronte al trasloco della Champions nella sala dei trofei del Museum, avrebbe ancora obiezioni e stupidaggini varie da tirare fuori.


Quanta strada, da Bardonecchia ad oggi. Da una squadra costruita per provare a far qualcosa di meglio che arrivare settima, parametri zero dismessi dalla concorrenza come Pirlo, scommesse al buio come Vucinic, reduci da infortuni seri come Quagliarella, eterne bandiere come Del Piero e lo zoccolo duro come Buffon e Chiellini. E Marchisio a fare da collante. Una squadra dal valore attorno ai 10 euro, con cui non azzardarsi nemmeno ad entrare nei ristoranti da guida Michelin. La società, già la società. In crescita, pure essa come tutti, senza però attendere nessuno: chi c'è, c'è. Conte non c'è più. Allegri sì, e trae vantaggio dalla crescita del mondo Juventus. Lo blandisce, lo amplia, lo impasta, lo arricchisce, lo fa esplodere fino a CR7 e soci. Se Antonio fosse qui, non solo vincerebbe lui al posto di Max Allegri la panchina d'oro, ma forte delle banconote da 500 euro che gli riempirebbero il portafogli, avrebbe l'imbarazzo della scelta su quale ristorante frequentare e mentre si dichiarerebbe “orgoglioso della squadra di allora”,potrebbe scoprire che il ristorante da 20mila euro a bottiglia, in cui è entrato, Cristiano Ronaldo se l'è pure comprato. A volte, come è strana, la vita.