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Le meraviglie del mondo, sia quello antico che quello moderno, sono sette. Una in meno di quelle edificate, sul terreno sportivo, dal presidente della Juventus Andrea Agnelli. Otto, in fila una all’altra. Un numero che, se sdraiato, simboleggia l’infinito. E sembra davvero essere senza fine la storia che racconta la squadra bianconera del secondo millennio e quel piccolo ma prezioso triangolino tricolore che vuol dire scudetto, l’ultimo dei quali non sarà forse bellissimo come quelli conquistati dopo battaglie aspre e lunghe ma che, in ogni caso, va a potenziare dolcemente uno score di primati il quale in Italia non ha eguali.

Il fil rouge che lega ciascun titolo di campione d’Italia blindato nella bacheca della società torinese possiede un unico marchio di fabbrica e arriva da lontano. È quello degli Agnelli, una famiglia che è riuscita nel corso di due generazioni a trasformare una squadra di calcio in un’azienda di eccellenza internazionale persino più produttiva e certamente più emotivamente coinvolgente delle automobili le quali hanno sempre rappresentato il “brand” principale della dinasty piemontese.

Le sole volte in cui la Juventus non riuscì nell’impresa o comunque non fu in grado di lottare fino alla fine con la concorrenza furono quelle consumate nelle stagioni in cui al vertice della società non c’era un Agnelli. Da Catella, passando per Cobolli Gigli e per Blanc la squadra bianconera ebbe a vivere momenti di stanca e di grigiore che non facevano parte del suo Dna originale. I famosi periodi di transizione i quali, prima o poi, tocca a tutti sperimentare. Poi, scomparso prematuramente Umberto che aveva ereditato il gioiello di famiglia dal fratello Gianni, ecco che il figlio in seconde nozze del “dottore” si trova a dover gestire e amministrare un patrimonio che lui fin da subito comprende non essere soltanto privato perché in realtà appartiene alla gente e, in particolare, al popolo bianconero. Impresa notevole.

Andrea è giovane, come tale ancora inesperto e certamente un poco stordito dalla pesante responsabilità che ha dovuto e voluto accollarsi. Fatale che il primo anno sia anche per lui momento di studio e di praticantato. La stagione dei bianconeri con Del Neri in panchina si risolve in maniera anonima e non all’altezza del pedigree. Ma Andrea è un tipo sveglio di quelli che imparano in fretta e bene. Soprattutto è un giovane uomo il quale sa ascoltare anche le voci che arrivano da lontano. Sicché se da un lato esiste nella realtà quella di Marotta il quale provvede a fare da Virgilio per il nuovo presidente in un mondo scivoloso e irto di trappole, dall’altro Andrea riesce a cogliere il senso di insegnamenti che soltanto lui può udire e ascoltare. Quelli che gli arrivano da suo padre e da suo zio. E anche nel loro nome la nuova sentinella per i beni della famiglia opera riuscendo a stupire forse persino se stesso.

La Juventus di oggi è certamente diversa, in termini aziendalistici e produttivi, da quelle che fecero capo a Gianni e Umberto Agnelli. Così come profondamente differente è il modo di ragionare e di fare calcio in un mondo, anche quello sportivo, che nulla ha più a che vedere con i parametri del passato. Andrea, senza dover rivoluzionare nulla in maniera sanguinosa e rispettando comunque la tradizione dei padri fondatori, non soltanto si è adeguato alle nuove necessità dettate dal sistema, ma addirittura ha saputo anticipare ogni tipo di logica innovativa rispetto alla concorrenza la quale tenta di adeguarsi, per il momento inutilmente, con affanno. È lui, con la sua Juventus, a dettare i tempi. Ecco il perché di questo ottavo scudetto consecutivo e degli altri che già si intravedono all’orizzonte. Come direbbero i francesi, “ça va sans dire”.