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Lo scrittore Sandro Veronesi ha scritto un poemetto in 456 versi dedicato alla Juventus, la sua squadra del cuore. La formula con l'apostrofo è la stessa che viene utilizzata in uso dialettale dalle sue parti. "E' il mio regalo ai tifosi al termine di questa stagione terminata con il settimo scudetto consecutivo", le sue parole al Corriere della Sera che ha pubblicato la versione integrale dell'opera.

"La mia Juve è la squadra degli ultimi - ha dichiarato - di chi sta in provincia, di quelli che soffrono, sono emarginati, a tratti disprezzati ma per 90 minuti diventano primi". 

Vince, l’Juventus, vince sempre,
ma voi, fratelli miei
(siamo tutti fratelli, no?),
non capite perché. 
L’Juventus,
con l’apostrofo,
come la chiamavano i vecchi dalle mie parti, ora son tutti morti, ma anche certi giovani come il Fregoli, «quando gioca l’Juventus», «cosa ha fatto l’Juventus», il Fregoli, lui era giovane e diceva l’Juventus; ora è quasi vecchio, come me, e dice ancora l’Juventus. 
Voi non capite, fratelli,
siete tutti troppo esperti, ormai,
troppo competenti, per capire l’Juventus. 
L’Juventus è una squadra di provincia,
è la squadra della provincia più grande del mondo, la squadra di provincia più forte del mondo; è la squadra del tifo inconsapevole, degli operai che tifano per il padrone, dei poveri che pagano i lussi del ricco, degli emigranti che vogliono rimanere italiani, degli immigrati che vogliono diventarlo, dei terroni che lavorano per la Savoia, dei preti, dei montanari, dei marinai, dei poliziotti, l’Juventus, la luce di chi non ha luce, l’orgoglio di chi non ha orgoglio, la fede di chi si fida solo dell’Juventus, e non sa cosa sia Twitter, o Facebook, o un blog. 
È per questo che vince,
l’Juventus,
è per loro,
ma voi non lo capite.

I tifosi dell’Juventus accettano tutto dall’Juventus, perché è la cosa più bella che hanno, non s’intendono di tattica, non sanno a memoria le formazioni e quando le sanno sbagliano i nomi, li pronunciano male, specialmente quelli degli stranieri, Lanrdup, Neved, Desciamps, perché non sanno le lingue, ma anche quelli degli italiani, Caùsio, Favèro, perché sanno poco anche l’italiano, e non sono dimestichi con sdrucciole e tronche; ma quando sognano, sognano l’Juventus, e non capiranno mai perché Virdis non voleva venire all’Juventus. 
È per questo che vince,
vince per loro,
per quelli che dicono «l’Juventus»,
ma voi non lo capite.

Ennio Doris, fratelli, quello di Mediolanum: 
quando era ragazzo era povero
ed era tifoso dell’Juventus;
è diventato ricco,
ed è diventato del Milan. 
Capite questo, fratelli. 
Ennio Doris, imprenditore e banchiere: 
subito dopo la guerra,
nel ’47, nel ’48, era povero;
mungeva le vacche, Ennio Doris,
ed era tifoso dell’Juventus;
ora munge gli uomini,
è tifoso del Milan. 
L’ha detto a me, personalmente,
Ennio Doris,
nato povero a Tombolo, Padova,
diventato ricco a Milano,
l’ha detto a queste mie orecchie
una sera d’agosto,
a Milano, per l’appunto,
a cena dall’Assassino,
il ristorante sui Navigli che ora non c’è più, fondato da Ottavio Gori da Altopascio, morto nel 1994, dove cenava Gipo Viani da Treviso, morto nel ’69, dove cenava Nereo Rocco da Trieste, morto nel ’79, dove cenava Cesare Maldini, da Trieste anche lui, morto nel 2016; il ristorante dei giocatori del Milan, il ristorante della Milano da Bere, il ristorante dei VIP, dove ha cenato Christian Barnard, sì, proprio lui, il grande chirurgo, che ha trapiantato il primo cuore nel ’67, e non ha visto le Torri Gemelle crollare perché è morto il 2 settembre del 2001 (per un attacco d’asma e non di cuore come è stato erroneamente detto). 
L’Assassino, fratelli, che ora non c’è più, dove hanno cenato tutti gli attori e tutte le attrici che passavano da Milano, ci ho cenato anch’io, una sera d’agosto, seduto accanto a Ennio Doris, nella saletta privata, e c’era Silvio Berlusconi, (pagava lui) e c’era Galliani, che prendeva per il culo Colaninno, e c’era Colaninno che si vergognava, perché non avrebbe dovuto essere lì, e infatti se ne andò prima, e c’erano i francesi (io ero con i francesi), e c’erano i dirigenti dell’Juventus, quelli che sequestravano gli arbitri, la feccia del calcio, e c’era Zaccheroni, e c’era il fratello di Berlusconi, e c’erano i due figli piccoli di Berlusconi, la femminuccia e il maschietto, Eleonora e Luigino, vestiti a festa, (la loro madre no, non c’era), e l’Juventus aveva appena vinto il Trofeo Berlusconi, capite questo, 2-1, in rimonta, sotto il naso di Berlusconi, e Berlusconi rosicava, a capotavola e riceveva i suoi ospiti uno alla volta, cupo in volto, e li ascoltava porgendo l’orecchio inclinando lievemente il busto verso di loro, senza mai guardarli, come un vero padrino, e intanto Ennio Doris mi raccontava di quando era povero e mungeva le vacche, ed era tifoso dell’Juventus. 
Capite questo, fratelli,
è per questo che l’Juventus vince. 
Ma voi non lo capite.

Se fosse per me, fratelli,
e per la gente come me,
gente educata, informata, di città,
che legge i libri, che li scrive addirittura, l’Juventus non sarebbe l’Juventus, sarebbe come tutte le altre; se fosse per i suoi tifosi delle belle città, che pure son tanti, i tifosi della bella Torino, della bella Milano, della bella Genova, della bella Bari, della bella Bologna, della bella Venezia, l’Juventus non sarebbe l’Juventus, sarebbe la Juventus, e non sarebbe nulla. 
Ma attorno alle città belle ci sono le città brutte, là dove c’era l’erba ci sono le periferie, le cinture, gli hinterland, ci sono gli alveari imbottiti di terroni, c’è il cemento colato a fiumi dalle betoniere addosso alla «gentarella anonima, e quindi pura» come la chiama Pasolini, tifoso del Bologna, non dell’Juventus, morto ammazzato nel ’75. 
Lì, nel cuore dell’Italia brutta,
dove si cresce male, e si sogna male,
la Juventus diventa l’Juventus,
e diventa invincibile. 
Ma questo voi non lo capite.

E anche in campagna,
fratelli,
in quel che resta della campagna italiana, l’Juventus diventa invincibile; nei casali di campagna, nelle frazioni di campagna, nei paesi di campagna, nelle strade di campagna, lungo i muri a secco di campagna, che crollano, agli incroci con le madonnine di campagna, che non piangono, sui vecchi trattori, sulle mietitrici scassate, tra gli animali, nelle vigne, nei frutteti, o nelle grandi aziende linde e pinte, negli allevamenti intensivi, ci sono quelli che mungono, ci saranno sempre, quelli che mietono, ci sono quelli che arano, che raccolgono i pomodori, danno il concime, strappano i ceci, che puliscono i porcili, che insaccano le mortadelle, che sputano la cera e girano il caglio, e si spezzano le anche cascando dalle tettoie, e si mozzano le dita potando gli olivi, e sono italiani, e sono indiani, e sono romeni, albanesi, egiziani senegalesi, magrebini, pakistani, e sono tutti tifosi dell’Juventus. 
L’Juventus vince per loro,
vince grazie a loro;
capite questo, fratelli
(perché siamo ancora tutti fratelli, giusto? 
O non lo siamo più?),
capite questo. 
No, voi non lo capite.

E in montagna, fratelli,
nei paesi di montagna, o di mezza montagna, sugli Appennini, sulle Prealpi, le frazioni aggrappate alla provinciale, tutte lì, in cento metri, lungo la strada, poche case che sfilano in un lampo mentre si va in montagna, con quei nomi di confine, Dogana, Limite, Passo, riferiti a confini che non esistono più, e non c’è più il barbiere, e la scuola non c’è mai stata, e c’è un solo alimentari, un solo bar, lì, in quell’alimentari, in quel bar, sta la vera forza dell’Juventus, grazie a uomini e donne per i quali le gambe contano più della testa, dai volti rubizzi, le vene a ragnatela, gli occhi liquidi, il colletto della camicia sempre abbottonato, emigrati, tornati, emigrati, tornati, uomini e donne che non vincono mai niente, salvo quando l’Juventus vince per loro. 
Capite, adesso? 
No, ancora non capite.

Ma soprattutto, fratelli,
c’è la provincia,
la provincia è la patria dell’Juventus, è la sua sede, la sua tesoreria, l’interminabile provincia italiana, con la sua interminabile piastra di LEGO che assedia i centri storici, patrimonio dell’umanità, col suo continuum di zone industriali, centri commerciali, ipermercati, lap-dance, parchi-gioco, smorzi, discariche, outlet, autostrade, superstrade, bretelle, declassate, varianti, complanari, quell’unica città componibile che cambia nome ogni cinque chilometri, ma rimane sempre uguale, e azzanna le chiese millenarie, volute dai Papi e rose dal tempo, coi loro fieri campanili, invece, diseguali, che si sfidano l’uno con l’altro; la provincia, la città uguale che divora le città diverse, che divora bellezza, storia, tradizioni, e digerisce tutto in un unico composto anch’esso sempre uguale di noia e paura, di rabbia e rassegnazione, di mangiar bene e di mangiar male, la provincia col suo cupo benessere, l’artigianato tipico, la pro loco, l’erboristeria, il Duomo, il museo civico, i piccioni, il fiume, le rotonde, i turisti olandesi in bici, la prima cerchia di mura, la ZTL, la seconda cerchia di mura, l’area pedonale, il corso lungo e dritto per lo struscio, che adesso si chiama movida, e infine la piazza, vuota per lo spaccio, d’inverno, piena per i concerti, d’estate, di Pupo, Al Bano, Sal Da Vinci, assorbiti come metadone, per lenire l’astinenza catodica, e c’è sempre un bar Sport, a un certo punto, o un Gran Caffè qualcosa, coi capannelli fuori, di uomini che discutono. 
Ecco, fratelli,
è lì, in quei capannelli,
nella morente provincia italiana,
è lì che splende l’Juventus,
nell’imbianchino dalla tuta inzaccherata, o il manovale, o l’elettrauto, o il carrozziere, che ride mentre qualcuno gli dà del ladro: 
ride, insolente, perché vince sempre,
ride, col fischio dell’enfisema, ride e splende, lui che non splende mai se non quando splende l’Juventus. 
Succede ovunque, fratelli,
capite questo,
ovunque,
ed è sempre la stessa scena,
a Trento, a Fermo, a Pordenone,
a Bordighera, a Comacchio, a Metaponto, a Norcia, a Jesi, a Sarzana, a Prato, a Crema, a Roccella Jonica, a Deiva Marina, a San Benedetto del Tronto, a Rho, a Giarre, a Novara, a Montesilvano. 
Splendono, quelli che non splendono mai, in tutte le città che hanno una squadra di calcio con la maglia a strisce bianche e nere, a Viareggio, a Siena, ad Ascoli, a Cesena, a Lentini, a Tortona, a Biella, a Rapallo, a Lavagna, a Lodi, a Meda, a Moglia, a Suzzara, a Rovereto, a Mirano, a Lugo, a Sansepolcro, a Massa, a Fucecchio, a Sora, a Battipaglia, a Nola, a Squinzano: 
e perché mai quella maglia bianconera,
se non per ringraziare l’Juventus? 
Splendono, fratelli,
in tutte le cittadine-Scalo,
Orbetello Scalo, Scarlino Scalo,
Latina Scalo, Gavorrano Scalo,
Stimigliano Scalo, Sant’Angelo Scalo,
Villapiana Scalo, Chieti Scalo,
Narni Scalo, Capaccio Scalo,
Fabro Scalo, Monterotondo Scalo,
Castellina Scalo, Sticciano Scalo,
Forenza Scalo, Cancello Scalo,
ridono, coi denti guasti,
splendono e ridono,
solo perché l’Juventus vince e splende; e in tutte le cittadine dai nomi assurdi, di cui non importa a nessuno nemmeno sapere dove siano: 
«Di dove sei?»
«Di Massa e Cozzile»
«Oh. E per che squadra tifi?»
«Per l’Juventus». 
Non so se capite, fratelli,
(ammesso che siamo ancora fratelli)
e perciò ve la faccio più semplice: 
«Per che squadra tifi, tu, perdente, nato male, nullità?» «Per l’Juventus». 
Non so se sono riuscito a farmi capire.

L’Juventus. 
L’Juventus è la Grande Retorica dell’Italia, la Fidanzata d’Italia, l’Unità d’Italia, il Giro d’Italia, Miss Italia, il 2 giugno, il 4 novembre, il 25 aprile; l’Juventus, il pane e olio, la pasta avanzata, la caccia e la pesca, la spiaggia, il riposo del minatore, il premio per chi sceglie per ultimo, e non può scegliere la fortuna, e non può scegliere la bellezza, e non può scegliere la ricchezza, e non può scegliere la cultura, e non può scegliere la comodità, perché sono già state scelte, ma può ancora scegliere l’Juventus. 
Ecco per chi vince, l’Juventus,
ecco quello che non capite. 
Vince per gli ultimi che diventano i primi, vince per i poveri di spirito, è il loro Regno sulla terra, in attesa di quello dei Cieli, che non si sa nemmeno se c’è; vince per quelli che perdono, per i cugini scemi, per gli zii matti, per i rancorosi, per i falliti, per i brutti, vince per i vecchi, per i bambini, per i froci, per i drogati, per i negri, per le puttane, per le puttane negre e drogate, per i carcerati, per i secondini, per gli infermieri, per i malati, vince per i lebbrosi, perché ci sono ancora i lebbrosi, fratelli, io lo so, io ne ho abbracciato uno, a Roma, all’Olimpico, una sera di maggio, era vicino a me, nei distinti, mentre l’Juventus si giocava la Coppa, solo come un cane rognoso, il volto coperto di croste, di pustole orrende, le labbra tumefatte, sanguinolente, aveva il vuoto pneumatico intorno, nonostante il tutto esaurito, tutti preferivano ammucchiarsi tra loro piuttosto che avvicinarsi a lui — non capivano, nemmeno loro —, ma io rimasi al mio posto, il posto che mi ero comprato, e il mio posto era accanto al lebbroso, e quando l’Juventus vinse la Coppa, mi gettai tra le sue braccia, giuro, abbracciai il lebbroso, lo strinsi a me, baciai le sue piaghe, perché l’Juventus aveva vinto la Coppa, e l’aveva vinta per lui, non per me, ce l’aveva fatta grazie a lui, non a me, a causa di lui, non di me. 
Spero che questo lo capiate: 
aveva vinto lui, perché l’Juventus è lui.

E poi ci sono i morti, fratelli,
perché l’Juventus vince anche per loro, che non possono più ridere, splendere, innanzitutto per quei morti: 
per Rocco Acerra, postino di Francavilla a Mare, per Nino Cerullo, suo cognato, tifoso interista, per Bruno Balli, di Prato, (sono amico di suo fratello), per i francesi, Jacques François, impiegato di Lilla, per Claude Robert, ferroviere di Segré, per i belgi, Alfonso Bos, Willy Chielens, Dirk Daeninckx, Jean Michel Walla, per Patrick Radcliffe, l’irlandese, per Giancarlo Bruschera di Taino (Va), per Giovanni Casùla, dirigente di Cagliari, per Andrea Casùla, suo figlio, alunno di V elementare, per Giuseppina Conti, liceale di Rigutino (Ar), per Dionisio Fabbro, operaio di Buja (Ud), per Eugenio Gagliano, assessore comunale di Mirabella (Ct), per Francesco Galli, carpentiere di Calcio (Bg), per Giancarlo Gonnelli, bidello di Ponsacco (Pi), per Alberto Guarini, studente di odontoiatria di Mesagne (Br), per Giovacchino Landini, ristoratore di Torino, per Roberto Lorentini, medico di Arezzo, per Barbara Lusci di Domos Novas (Ca), per Franco Martelli di Todi, per Gianni Mastroiaco, geometra di Casette (Ri), per Sergio Bastino Mazzino, rappresentante di Cogorno (Ge), per Loris Messore, di Pontecorvo (Fr), per Luciano Rocco Papaluca, impiegato di Bruzzano (Mi), per Luigi Pidone di Nicosia (En), per Benito Pistolato, commerciante di Bari, per Domenico Ragazzi, muratore di Roccafranca (Bs), per Antonio Ragnanese, odontotecnico di Brugherio (Mi), per Amedeo Giuseppe Spolaore, dentista di Bassano del Grappa, per Mario Ronchi, tifoso interista di Bassano del Grappa, per Domenico Russo, elettricista di Moncalieri (To), per Tarcisio Salvi, titolare di una pizzeria a Brescia, per Gianfranco Sarto, meccanico di Donada (Ro), per Mario Spanu, cuoco di Autogrill di Novara, per Tarcisio Venturin, operaio di Pero (Mi), per Claudio Zavaroni, fotografo di Reggio Emilia. 
Ma siccome i morti sono morti,
e sono tutti uguali,
se l’Juventus vince per quei morti
allora lo fa anche per tutti gli altri,
anche se è inutile, e non serve a nulla; sì, l’Juventus vince per tutti i morti, ce l’ha proprio scritto nel destino, visto che è stata fondata nel giorno dei morti del 1897.

Vince, l’Juventus, vince sempre,
ma voi siete diventati così esperti, fratelli, (perché siamo ancora fratelli, ve lo dico io), così tecnologici e competenti, così moderni, così attenti, che non capite. 
Non capite che la domanda da farsi non è «Perché?» La domanda da farsi è «Per chi?» Per chi vince, l’Juventus? 
La risposta io ve l’ho data, fratelli,
capitela, e capirete tutto,
e se è troppo lunga — perché lo è,
è troppo lunga, come risposta,
ma, sapete, parlando dell’Juventus
mi sono fatto prendere la mano —,
adesso ve ne darò una breve
e semplice come un apostrofo: 
vince, l’Juventus,
per i bambini che mungono le vacche,
in ogni stalla d’Italia,
e non diventeranno mai ricchi.