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"Il calcio muore", vero, ma non per la decisione dei giudici. Il calcio muore ogniqualvolta si mettono gli interessi propri davanti ai regolamenti, la strumentalizzazione davanti alla giustizia. Il calcio muore nel momento in cui un fatto così delicato ed importante viene usato per un fatto molto terreno, concreto e vicino come una squalifica calcistica. Il razzismo è un tema per cui negli anni tante lotte sono state affrontate, per cui i sogni di libertà di molti si sono dovuti confrontare con la dura realtà di idee e governi, sparsi nel mondo, non in grado di fare i conti con l'integrazione, di accettare un processo sulla cui legittimità non bisognerebbe nemmeno più discutere.

Qui, va specificato perché sia ben chiaro, non si entra nel merito del fatto - gravissimo e giustamente condannato - degli insulti razziali, che, va ribadito ancora una volta, sono quanto di più sbagliato e lontano dal mondo del calcio e da quello della normale vita. (Lo abbiamo sottolineato anche qui, apprezzando l'iniziativa dell'Inter, oltre ogni colore).

Come si diceva, il problema, in questo caso, però è la richiesta reiterata di togliere una giornata di squalifica a Koulibaly dopo i fatti accaduti in Inter-Napoli, che l'hanno visto protagonista per l'espulsione con applauso all'arbitro e per i cori razzisti - vergognosi - rivolti al suo indirizzo. Parole ribadite nel comunicato pubblicato poco fa sul sito ufficiale azzurro, con alcuni passaggi da sottolineare: "Il rigetto del nostro ricorso è una grave sconfitta per il calcio, ma anche per quello che è l’aspetto più ampio che questa vicenda ha sollevato: la lotta contro le discriminazioni, di ogni tipo, che continuano a essere presenti nel calcio e nella nostra società. E’ stata umiliata una battaglia che l’Uefa porta avanti da molti anni e che il Napoli ha sempre sostenuto. Ma la sconfitta è anche verso coloro che, sbagliando, hanno sostenuto che negli stadi non ci sia razzismo, e che a urlare il loro disprezzo verso neri, napoletani, ebrei siano solo pochi".

Un passaggio a cui si aggiunge il seguente, di grande interesse: "Come se qualche procedura regolamentare non potesse fare l’unica cosa che andava fatta: ridare a Kalidou Koulibaly la dignità che merita un ragazzo del Senegal che rappresenta, per quello che è successo, tutto il male e tutto il bene di quanto sta accadendo in Italia. Koulibaly, il calcio, le istituzioni, tutti escono umiliati da questa vicenda. Togliere la squalifica a Koulibaly andava fatto a prescindere dai regolamenti, dalla burocrazia". In particolare quest'ultima frase, da toccare per due motivi: innanzitutto, la sentenza tocca tutti i punti e spiega perché il ricorso non possa essere accolto, a livello giuridico, e non per un fatto di bontà mancata. Perdipiù, in un sistema che per funzionare deve essere fatto di regole, non si può pensare che queste possano essere archiviate e surclassate, se non altro perché creerebbero uno scomodo precedente che chiunque potrebbe sfruttare. 

"Il calcio in questo modo muore. Perché il calcio è prima di ogni cosa passione, una passione che unisce miliardi di persone nel Mondo, e che non può essere derisa in questo modo". E su questo non si può non essere d'accordo, anche se, come specificato all'inizio, il calcio muore quando fatti fondamentali e importanti, rischiano di seguire la scia della strumentalizzazione. A chi è davvero con Koulibaly, condividendo con dispiacere il suo dolore e le sue emozioni - come noi -, la questione squalifica nemmeno la considera, perchè la lotta al razzismo è ben più di 90'.