Bongarts/Getty Images

L'Heysel in prima persona, Bonini al BN: "La coppa passò in secondo piano, non si può morire per una partita"
Proprio così l'ha definito Massimo Bonini, uno dei giocatori della Juventus che scese in campo in quella finale drammatica. L'ex centrocampista ha raccontato ai nostri microfoni l'atmosfera di una gara surreale e dei giorni successivi alla strage: lasciamo dunque la parola a chi ha vissuto in prima persona la notte dell'Heysel.
L'intervista a Massimo Bonini
Quest’anno si ricorda l’Heysel nel suo quarantesimo anniversario: qual è il legame che si è sviluppato con quella partita negli anni successivi?
Il ricordo non è cambiato più di tanto: purtroppo l’errore più grosso è stato giocare in uno stadio non adeguato a una finale di Coppa dei Campioni. Era uno stadio troppo vecchio e non adatto per una finale. In quel periodo i tifosi inglesi, soprattutto del Liverpool, portavano un po’ di confusione e si sapeva: anche la mattina in centro erano successi dei tafferugli. Il fatto è che la curva era divisa a metà tra tifosi juventini, che non erano ultrà, anzi erano famiglie che avevano trovato i biglietti all’ultimo. I tifosi inglesi hanno lanciato di tutto e gli altri sono dovuti scappare e sono morti per soffocamento.
Ricorda come fu l’attesa di giocare la partita? Riuscivate a capire cosa stava succedendo sugli spalti?
Noi non sapevamo assolutamente niente, lo spogliatoio era dalla parte della curva della Juventus: i tifosi che erano in curva non sapevano niente nonostante vedessero che stava succedendo qualcosa. Non si può morire per una partita di calcio, era l’ultima cosa a cui avremmo pensato. Negli spogliatoi arrivavano alcuni tifosi a dirci che c’erano stati tanti morti, altri che non era successo nulla: c’era tanta confusione. Scirea era andato verso la curva della Juventus per dire che. Si sarebbe giocato, proprio perché noi non sapevamo niente, oltretutto avevamo riscaldamento dietro allo spogliatoio. Non c’erano forze dell’ordine, c’erano 7-8 poliziotti a cavallo che giravano, ma non erano organizzati per un evento così grosso.
Dopo la strage dell’Heysel, Boniek dichiarò che non giocare la partita sarebbe stato peggio: è d’accordo con questo? Perché?
Il fatto di aver giocato ha dato la possibilità alle forze dell’ordine di organizzarsi e mandare via i tifosi del Liverpool a fine partita. Sì, è stato meglio giocare: se si fosse saputo quello che era successo senza giocare, probabilmente ci sarebbe stato uno scontro fra tifosi ben peggiore di ciò che è successo. Morire per una partita di calcio è allucinante e ingiustificabile, non pensi mai che possa succedere una cosa così. Sarebbe stato molto peggio se non avessimo giocato, i tifosi della Juve sarebbero andati dall’altra parte: la partita andava giocata.
Dopo una lunga attesa la partita si giocò: com’era l’atmosfera mentre eravate in campo e subito dopo?
È stata una partita di calcio, noi volevamo giocarla a tutti i costi e non avevamo proprio idea di ciò che fosse accaduto, perciò abbiamo cercato, per quanto fosse possibile, di concentrarci di sulla partita.
Quando avete capito davvero cos’era successo qual è stata la sua prima reazione?
Quando siamo andati in albergo e abbiamo visto i filmati di cosa era successo dalla televisione. Non avevamo idea di quello che era accaduto, proprio perché c’era stata tanta confusione.
Nei giorni successivi alla partita ci furono diverse polemiche: come avevate affrontato la questione? Qual era il vostro pensiero?
Non abbiamo festeggiato nulla, la coppa passa inevitabilmente in secondo piano. Siamo partiti subito per l’Australia senza festeggiare: per la Juventus era importantissima la Coppa dei Campioni, ma quando ci sono delle morti di mezzo, non si può festeggiare. Siamo tornati a Torino senza fare alcun tipo di festa, siamo entrati in campo per mostrare la coppa a chi era venuto, come semplice gesto. Non abbiamo evidenziato la vittoria a cui tenevamo, c’erano state polemiche perché Brio aveva alzato la coppa, ma l’aveva fatto appena uscito dall’aereo e basta. Era qualcosa di semplice e tranquillo, senza voler evidenziare o mostrare di aver vinto, perché a quel punto contava meno di tutto il resto.
Come è stato tornare a giocare delle trasferte, ad esempio all’estero, con la consapevolezza di ciò che era accaduto? Influenzava anche voi giocatori?
Contro le squadre inglesi sapevamo che fossero sempre partite difficili da gestire, anche quando si era giocata la supercoppa a Torino con il Liverpool, però in Italia sapevano che ci sia sarebbe dovuti organizzare in modo diverso. La situazione come all’Heysel non si poteva più presentare. Il problema che coinvolge ancora il nostro calcio è che si preferisce tifare contro la squadra avversaria piuttosto che per la propria, e questo è un grave problema di ignoranza. Per me la vittoria del calcio, anche in risposta all’Heysel, è arrivata con una partita fra San Marino e Olanda Under 21, quando ho visto il campo pieno di bambini che giocavano insieme fra primo e secondo tempo.
Negli anni lei è tornato più volte all’Heysel, sia con la Nazionale di San Marino, sia con la Juventus: che effetto le ha fatto e quali sensazioni le ha lasciato rimettere piede in quel luogo?
Innanzitutto lo stadio è diverso, non è più quello ed è cambiato completamente. È tutta un’altra cosa, l’emozione è sempre grossa e forte, perché sono morte 39 persone innocenti. È davvero triste perché immagini le famiglie che hanno perso i propri cari, è un’emozione che fatichi a cancellare: per coloro che sono rimasti e hanno perso i loro cari fa ancora più effetto.
Commenti
(0)