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Genova per noi, juventini che veniamo da sotto le montagne, sarà sempre un luogo che ci porta a scoprirci con la faccia un po’ così proprio come canta Paolo Conte astigiano e bianconero pure lui. Città particolare, come Torino, con in più il mare. Segreta, misteriosa, intrigante e fiera. Ricca di profumi. Quelli del basilico pestato nel mortaio con i pinoli e della farinata appena uscita dal forno. Cullata da opere musicali irripetibili. Quelle scritte da De Andrè per le mille “Bocca di rosa” e da Paoli che per la sua Ornella Vanoni “disegnava” il cielo dentro una stanza. 

La Lanterna, anziché la Mole Antonelliana, simbolo di un potente messaggio di combattività sociale e politica. Il fumo e il profumo del sigaro di don Gallo ancora nell’aria a rammentare le mille battaglie partigiane o quelle più recenti scritte dai ragazzi massacrati durante i giorni del “G8”. Ecco che “parenti siano un po’” di quella gente “selvatica” in una città che ci inghiotte. Eppoi c’è il calcio.

Il Genoa, per noi juventini che arriviamo dal regno degli scudetti, è fonte di pensieri assortiti a bagnomaria in un liquido di tribolazioni e affettuose lontananze. Una pentola perennemente sul fuoco la quale comincia a ribollire ogni volta che l’incontro ravvicinato si ripete. Cosa che accadrà sabato sera per la seconda di campionato. 

Si detestano cordialmente le due tifoserie, non per nulla apparentate ciascuna a quelle dei concittadini. Juventus e Sampdoria. Torino e Genoa. Eppure la storia del pallone racconta di legami piuttosto stretti tra bianconeri e rossoblu. A cominciare da quel passerotto libero e geniale il quale proprio a Marassi fece capire quanto sia possibile essere artisti e poeti anche danzando in un prato. Gigi Meroni, transitato in granata, era atteso alla corte degli Agnelli. Tutto pronto e tutto fatto. Il destino si mise di traverso e il cielo lo inghiottì. Il rammarico per un “non evento” fa ancora oggi da ghirlanda per un tragico fatto.

Come la vicenda di Andrea Fortunato il quale, anche lui genoano, fece appena in tempo a indossare la casacca bianconera per poi dover essere vestito con l’abito più bello e venir ricoperto prima di fiori e poi di terra lieve. Stefano Tacconi chiamò Andrea il suo primo figlio maschio in onore del giovane compagno scomparso e poi, finita la sua avventura con la Juve, proprio nel Genoa finì a difendere la porta. Capitoli brevi e tumultuosi chiusi nel corso di una partita in notturna, guarda caso, contro la Juventus. Il portiere becca due gol e la Nord lo invita a tornare a Sanremo dove Stefano aveva cantato sul palco dell’Ariston due sere prima. Tacconi risponde al coro beffardo mostrando il dito medio della mano destra. Apriti cielo e divorzio immediato.

Ieri ma anche oggi. Perché c’è un cuore bianconero che batte più forte del solito allorchè si avvicina il tempo per scendere al Ferraris. Un cuore grande e leggendario. Quello di Gigi Buffon, il capitano e il simbolo della Juventus. Era un ragazzino quando, una domenica sì e l’altra no, partiva da Carrara per raggiungere Genova in compagnia dello zio Gianfranco e andava a mischiarsi con il popolo ultras della Nord. Era ragazzino quando a chi gli chiedeva cosa avrebbe voluto fare da grande Gigi rispondeva senza esitare “Il calciatore, il portiere e giocare nel Genoa”. Non era più un ragazzino quando, già in carriera, giurava a se stesso e agli altri che la sua ultima maglia da professionista sarebbe stata quella rossoblu del Grifone.

Difficile che vada a finire a quel modo. Ma ecco perché, aspettando il Genoa, anche Gigi Buffon osservandosi allo specchio scopra di avere l’espressione un po’ così.