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Aspettando Roma-Juventus. Galoppano e si rincorrono i ricordi. Sfide di pallone memorabili tra due squadre che, rappresentando in epoche differenti l’intera Italia come capitali, intendevano anche su un campo di calcio sostenere il diritto alla loro premiership nazionale. Le pagine scritte sotto la presidenza di Giampiero Boniperti, da una parte, e da Dino Viola, dall’altra, rappresenteranno per sempre lo zenit più splendente e spettacolare dell’intera avventura a puntate. Successi e sconfitte, così va la vita. Rivalità ma anche rispetto. Massimo senso di competitività senza particolare acredine o livore. Polemiche feroci, specialmente una nel nome di Turone e tanti sfottò come quello ormai storico di Totti. La “beffa” di Cuccureddu per un sorpasso quasi impensabile, ma anche interscambi di maglia lungo la direttrice Roma-Torino come, ad esempio, per Capello e Menichelli. Occorrerebbero volumi per descrivere tutto ciò.

Mi piace, alla vigilia, dire di un uomo molto speciale che abitò le due città calcistiche in maniera completamente diversa l’una dall’altra. A Torino con addosso la maglia bianconera nel ruolo di “The King”, il re. A Roma con la casacca giallorossa nella parte, dolente e malinconica, del leone che oramai vecchio e consumato da mille battaglie è costretto ad abdicare per poi avviarsi mestamente lungo il viale del tramonto in un congedo che fa male al cuore. Era John Charles. Era il “gigante buono”. Era il calciatore campione di un’epoca calcistica bella, solare e pulita proprio come lui. Era il simbolo dello sport inteso nella sua forma più pura e cristallina.

Arrivava da Leeds, in Inghilterra, dove figlio di povera gente aveva lavorato in miniera. Non si vergognava. Anzi. “La mia più bella esperienza perché, dopo essere stato là sotto, ora posso dire che il mondo in superficie è bellissimo”. Così diceva. Gli occhi buoni, il sorriso dolce, il tono di voce sempre pacato e l’aria sempre un poco smarrita oppure sorpresa come quella di un bambino. Il fanciullo che viveva dentro quel corpo da peso massimo del ring che metteva paura ad ogni tipo di avversario. Ma la paura diventava unicamente rispetto nei suoi confronti perché il suo fisco da gigante non mortificava mai il concetto di cavalleria e di onestà decoubertiana. Mai una sola ammonizione. Mai una rissa. Mai una violenza neppure fortuita. Sempre la mano tesa verso i compagni, specie del bizzoso Sivori, e degli avversari che lo “subivano” con la serena consapevolezza di coloro che sanno chi è il più forte.

Scudetti e gol a raffica in quella Juventus del “Quinquennio” e dei tre cavalieri dell’ Apocalisse: Charles, Sivori e Boniperti. Mai più nessuno come loro insieme. Umberto Agnelli, il presidente, era il Re Sole. “Dovevo venire prima in questo Paese bellissimo e in questa città stupenda” diceva. Ma Peggy, la moglie padrona di John, la pensava in modo diverso. Lei, per i loro tre figli, voleva un’educazione rigorosamente inglese. Fu così che il gigante buono alla fine del suo quinto campionato nella Juventus si presentò davanti ai compagni e con gli occhi lucidi disse che se ne sarebbe andato. La famiglia prima di ogni altra cosa. Partirono per il Galles, non ricchi ma sufficientemente benestanti. Il calcio allora non era l’isola del tesoro ma soltanto una buona professione. Un pesce fuori dall’acqua. Scontento, triste, smarrito. Peggy lo cacciò di casa. Lui tornò in Italia per la stagione 1962-63. Alla Roma di De Sisti e di Pedro Manfredini allenata da Carniglia e poi sostituito da Foni. Ma Charles non era più lo stesso di prima.

Il fisico soltanto in apparenza integro e in realtà compromesso dalle battaglie epiche sostenute alla Juve. Ma soprattutto la testa e l’anima corrose, quotidianamente, dall’esperienza del divorzio e dalla forzata separazione dai figlia. Alle mille sigarette che aveva sempre fumato aggiunse anche qualche superalcoolico di troppo per tentare di ammorbidire i cattivi pensieri. Dieci partite appena nella Roma eppure quattro gol alla sua maniera. Volando alto nel cielo sopra le testa degli avversari. La seconda parte del campionato piazzato al centro della difesa. Forse neppure lui capiva bene dove era. Il leone, senza criniera e sdentato, ciondolava verso la fine portandosi dietro, però, l’amore vero dei compagni e della gente. Quell’affetto che spinse ex giocatori della Juventus e della Roma a fare una colletta per “The King” che, tornato definitivamente in Galles, era finito povero in canna e malato. A Leeds, da quindici anni e cioè dal tempo della sua morte, c’è una statua alta e grande come era lui. Anche questo fa parte della storia di Roma-Juventus. Aspettando la partita.