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Sono passati ormai 16 anni da quel 5 Maggio 2002. 16 lunghissimi anni.
Sono cambiate tantissime cose nel frattempo e la Juventus ha dovuto fronteggiare le “montagne russe”, sprofondando prima nell’inferno di Calciopoli per poi riscrivere in maniera paradisiaca la storia.
L’unica cosa che non è cambiata e forse non cambierà mai sono le polemiche che da sempre accompagnano i trionfi bianconeri, fomentate da tutti quegli anti-juventini che fanno dell’odio verso la Juventus uno stile di vita e sperano sempre che arriverà presto una nuova Calciopoli a spazzare via, questa volta per sempre, la Vecchia Signora.
E che la ricorrenza avvenga proprio nella settimana post Inter-Juve e delle polemiche ri-di-co-le ad essa collegata (come già ampiamente scritto su calciomercato.com) non pare proprio una casualità.
Ma cosa è stato davvero il 5 Maggio 2002? Cosa si sono persi i più giovani?
L’anno scorso, sempre nel corso di questa rubrica (http://www.ilbianconero.com/a/jdiscreti-ne-roma-ne-juve-inter-campione-91747),  avevo voluto ricordare in particolare l’apertura radiofonica di Tutto il calcio minuto per Minuto collegata allo striscione “Né Juve Né Roma, Inter Campione” che campeggiava in bella vista allo Stadio Olimpico quel giorno.
Quest’anno voglio ricordare invece l’incredibile e rocambolesca carrellata di emozioni di quel giorno e voglio farlo attraverso le parole dell’amico, critico d’arte, opinionista e scrittore Luca Beatrice che in occasione del mio libro 5 Maggio 2002…e ancora godo ne curò la prefazione con questo ricordo.
Buona lettura a tutti. 
 
Onore a Karel Poborsky
di Luca Beatrice

Nella vita di una persona normale cinque mesi rappresentano un lasso di tempo piuttosto considerevole, quindi è improbabile che uno possa programmare dove si troverà e che cosa farà una domenica pomeriggio da lì a circa centocinquanta giorni.
Ma un tifoso di calcio, non dico un semplice appassionato, ma proprio chi mette la squadra del cuore in cima alle proprie priorità, ragiona in maniera del tutto diversa.
La storia è andata più o meno così e merita di essere raccontata. Ogni anno, a fine gennaio, si tiene a Bologna un’importante fiera d’arte contemporanea, luogo in cui si danno appuntamento buona parte degli operatori italiani nel settore (artisti, galleristi, critici...). Un giovane gallerista di Udine mi invita a curare una mostra nel capoluogo friulano. Bisogna scegliere il periodo e io, a fine gennaio, so già che il giorno dell’inaugurazione di questa mostra sarà sabato 4 maggio 2002, perché il giorno dopo la Juventus giocherà l’ultima partita di campionato allo Stadio Friuli contro la squadra locale.
Ciò che è successo quella benedetta domenica dimostra quanto la logica sia del tutto inapplicabile all’universo del pallone e come novanta minuti possano condensare le emozioni di una vita intera. A Udine scendiamo in campo con la maglia nera da trasferta e sugli spalti del Friuli siamo oltre ventimila. Un minuto appena e Trezeguet la mette dentro di testa, si festeggia ma senza troppa convinzione, perché da Roma, dove si gioca Lazio-Inter, giungono notizie di uno stadio tutto nerazzurro, visto che i tifosi laziali hanno deciso di sostenere gli interisti «gemellati» (e avanti a noi di un punto in classifica), per contestare la stagione amorfa dei loro beniamini. La sensazione è quindi quella di una partita addomesticata. In più, al Friuli il tabellone luminoso è rotto, quindi sentiamo i risultati dagli altri campi attraverso le radioline, come non accadeva da almeno vent’anni. Infatti, dieci minuti o poco più, l’Inter segna con Vieri e pare che il portiere laziale Peruzzi, ex juventino, si sia fatto sfuggire la palla dalle mani o quantomeno non abbia fatto molto per trattenerla. Nel frattempo Del Piero ha raddoppiato a Udine ma l’esultanza è tiepida, come rassegnata. Poi a Roma un certo Poborsky, non certo un titolare inamovibile dei biancazzurri, inventa un tiraccio da fuori ed è pari. Il Friuli juventino impazzisce anche se non è passata neppure metà del primo tempo. Mentre a Udine la partita sembra finita, a Roma altra «disattenzione» della simpatica difesa laziale e Di Biagio fa il 2 a 1 di testa. Altra delusione, intorno a me serpeggia la sensazione inequivocabile che qui si sia assegnato il titolo. Ma questo benedetto Poborsky non sente fischi e insulti, tanto il giorno dopo se ne tornerà a Praga, e ne mette un’altra alle spalle di Toldo, poi va sotto la curva Nord laziale e manda beatamente i suoi tifosi al diavolo. 2 a 2, fine primo tempo, a 45 minuti dalla fine siamo campioni.
Parlo con alcuni fratelli juventini accorsi come sempre da tutta Italia: qualcuno dice che per l’Inter ora non sarà facile, altri, la maggior parte, pensa come me che un golletto su punizione o su ulteriore regalo degli amici biancazzurri prima o dopo arriverà. La ripresa al Friuli scorre via eterna finché un boato, paragonabile a un’esplosione, scuote le fondamenta dello stadio. Ha segnato Simeone: Lazio 3 Inter 2. A questo punto ci crediamo, e ci mettiamo a cantare, tra i brividi di gioia, le lacrime di commozione, la fatica nel trattenere il nervosismo e l’entusiasmo. E poi, ancora a Roma, Simone Inzaghi gol, fa 4 a 2 per la Lazio. La panchina della Juve è tutta in piedi, lo stadio è un coro assordante: «Campioni, campioni». È finita a Roma, è finita, l’Inter è a pezzi e io non ricordo più quello che avviene intorno a me, se non che afferro chiunque mi capita. Tutta la Juve sotto la curva, l’adorato Marcello Lippi che perde il consueto aplomb e si getta in un abbraccio con i nostri tifosi, e poi il caro Alex Del Piero, Ciro Ferrara la bandiera, Antonio Conte il nostro capitano, e Gigi Buffon il superportiere e l’indomito Pavel Nedved e tutti gli altri.
È finita, la Juventus è campione d’Italia per la ventiseiesima volta. Lo scudetto torna dove è giusto che stia.
Cucito sul nostro petto.