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Volutamente perfettino, come i primi della classe, e decisamente “torinese” a dispetto delle radici venete dei suoi genitori migrati in Piemonte per necessità sul’onda della grande fuga in cerca di fortuna. L’immagine, perlomeno quella pubblica, è sempre stata vicina al classico stereotipo del personaggio sottotraccia e senza sbavature. Un borghese, educato e sufficientemente acculturato, completamente a suo agio nel clima di quella classica piemontesità che rifugge ogni tipo di eccesso e di sovraesposizione. In realtà Roberto Bettega, che oggi sale sul sessantottesimo scalino della sua esistenza terrena, potrebbe essere tranquillamente il protagonista di un film il cui soggetto è ispirato dalla sua storia di campione e di uomo la quale, contrariamente alle apparenze e ai luoghi comuni, possiede capitoli avventurosi e persino drammatici.

Ne parlo e ne scrivo con cognizione di causa avendo percorso come osservatore al suo fianco praticamente l’intera carriera professionale di quello che la storia del calcio e della Juventus non può fare a meno di indicare con assoluto merito come uno fra i massimi e più apprezzati campioni. Ho anche avuto il privilegio di poter contare sulla sua amicizia e quindi di conoscerlo sufficientemente bene per poter affermare di aver avuto la fortuna di aver incrociato comunque una persona per bene, sicuramente premiato dalla fortuna per quel che valeva, ma anche perseguitato da certi incantesimi nefasti proprio nei momenti di maggior successo. Un destino altalenante quasi volesse ricordargli, di tanto in tanto, che la vita non è una passeggiata e che non vi può essere gioia autentica se non provi anche il sapore acido del dolore.

Per anni unico torinese della torinese Juventus trovò in uno svedese il primo vero maestro dopo aver terminato le “elementari” in bianconero sotto la guida del buon Pedrale il “papà” dei ragazzini bianconeri. Fu infatti Nils Liedholm a trasformarlo dall’ attaccante di “terra” che era in un “angelo” capace di svettare sopra la testa di ogni avversario. A Varese, dove lo avevano mandato per farsi le ossa, il tecnico capì le sue grandi potenzialità aeree malgrado lui saltasse con fatica. Ogni giorno, a fine allenamento, intorno alla vita di Bettega veniva stretta una cintura con attaccati dei pesi e per un’ora il ragazzo era costretto a salare più in alto che poteva. Quando tornò alla Juve era pronto a rilevare l’eredità di John Charles. E subito diventò Bobby gol. Una strega cattiva lo attendeva appostata dietro l’angolo.

Era il 1972 e Roberto Bettega si era guadagnato i gradi di inamovibile. In autunno, dopo ogni partita, cominciava a tossire e ad accusare qualche linea di febbre. Malanno stagionale, sosteneva il dottor La Neve. Poi, una domenica, dal petto gli uscì anche del sangue. Tubercolosi, parola terribile. Perse un anno intero curandosi a Villar Perosa dove la società lo aveva mandato. Fu durante quelle lunghe passeggiate che imparammo a conoscerci e a prendere confidenza sempre con il dovuto ed educato distacco preteso dal differenti ruoli. In quei giorni di ansia scoprii l’importanza di una giovane donna, Emanuela, che sarebbe stata la sua compagna e anche guida di tutta la vita. Lei una “donna con le palle”, come si dice. Lui un ragazzo semplice ma determinato. Sapeva cosa voleva. Guarì. I capelli sbiancarono e lui divenne “Penna bianca”, il guerriero delle aree di rigore.

Punto di riferimento per il calcio della Juventus ma anche per quello della Nazionale, dieci anni dopo, gli tornò a fare visita la strega cattiva. Con le sembianze di un portiere belga, Muneron, si palesò a Bettega per fratturargli un ginocchio. Può capitare giocando a pallone. Ma ci sono momenti e momenti. Quello era decisamente sbagliato perché gli azzurri di Bearzot erano alla vigilia di un Mondiale. In Spagna Bettega non andò e quella memorabile Coppa la sollevò il piccolo Selvaggi che non aveva mai giocato ma che era stato convocato per sostituire Bobby gol. Bettega vide i Mondiali in televisione ad Alassio dove, come ogni buon torinese, trascorreva le vacanze.

Il tempo passa per tutti. Anche per un bomber. In Italia fatica più del lecito, ma non vuole smettere. Ecco che va in Canada, nel Toronto Blizzard, a rendere prestigioso un calcio ancora molto piccolo e ad affinare oltre alla lingua inglese anche le sue qualità di manager. E, tornato in Italia nel 1984 per proporsi come punta di diamante del giornalismo sportivo televisivo, va a sbattere di nuovo nella strega malefica. Contro un ponte sulla Torino-Milano l’automobile di Bettega sbatte in maniera violentissima. All’ospedale di Novara, dopo averlo operato alla testa, sono in pochi a scommettere sulla sua vita. Tre giorni di coma profondo. Li trascorro praticamente accanto a lui, per dovere professionale e per amicizia, e da Emanuela raccolto confessioni tenere e private che mo sono sempre tenute per me. Il quarto giorno Bettega si sveglia, Non ricorda nulla ma è vivo. Supererà anche questa.

Il giocatore non c’è più. Quella del giornalista è attività che lo annoia. La strada del management calcistico gli si presenta davanti con la Juventus di Umberto Agnelli che gli spalanca le porte. Prima vicepresidente e poi nella stanza dei bottoni. Purtroppo per lui non è in buona compagnia, sotto il profilo di una certa etica sportiva. L’ultima immagine pubblica di Roberto Bettega è quella di un uomo che, in piedi nella tribuna d’onore, piange come un bambino perché è consapevole che il sogno sta andando in pezzi. Moggi e Giraudo, che gli stanno al fianco, sono imperturbabili statue di sale. Possono scorrere i titoli di coda.