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Un sabato di fine febbraio. Anno 1995. Il giorno successivo la Juventus deve incontrare la Sampdoria. Marcello Lippi, al suo primo anno sulla panchina bianconera ereditata da Giovanni Trapattoni, recita il rosario con i nomi dei giocatori chiamati a far parte della “rosa” per la trasferta di Genova. Prima di menzionare l’ultimo della lista, il tecnico viareggino si concede una pausa quasi teatrale. Poi, con grande intensità emotiva, pronuncia il nome. Quello di Andrea Fortunato. La piccola platea dei media in ascolto, dopo un istante di comprensibile perplessità, lascia partire un fragoroso applauso. Erano mesi che a proposito di quel ragazzo perugino ventitreenne, colto e di ottima famiglia e con davanti a sé la prospettiva di una carriera calcistica alla Cabrini, si sussurrava soltanto a bassa voce. Dal giorno in cui il dottor Agricola, medico ufficiale della squadra bianconera, aveva pubblicamente comunicato che per il giovane terzino si stava aprendo una pagina drammatica della sua vita. Colpito da una malattia terribile come la leucemia, avrebbe avuto bisogno di immediate e radicali cure nella speranza di poterlo trascinare fuori dall’incubo. Andrea Fortunato era tornato immediatamente nella sua città e ricoverato nel medesimo ospedale dove il babbo esercitava come cardiologo. Radioterapia, chemio e come tentativo estremo anche il trapianto di midollo osseo per donazione compatibile della sorella.


Dopo un anno di paura sembrava avercela fatta, Andrea. Doverosa, seppure di carattere puramente formale, la convocazione di Lippi. Ovviamente non sarebbe andato neppure in panchina. In tribuna sì. Felice di ritrovarsi nuovamente nel gruppo insieme con i suoi compagni che gli volevano bene e soprattutto con i suoi due grandi amici fraterni che erano Luca Vialli e Fabrizio Ravanelli. Il popolo juventino tirò un lungo sospiro di sollievo. Il ritorno alla vita di Andrea Fortunato provvedeva a mitigare un poco il grande senso di colpa che affliggeva i tifosi, consapevoli di aver preso un clamoroso abbaglio quando dubitarono della correttezza professionale del giovane campione. “Lavativo e borderline”, a quel modo impietoso era stato giudicato dalla “piazza” nel momento in cui, senza una ragione apparente, il comportamento in campo di Fortunato ai più era parso svogliato e inconcludente. Si fa presto a caricare la croce del sospetto e della maldicenza se non si sa esattamente di che cosa o di chi si parla. La verità era ben diversa da quella spettegolata a vanvera. Andrea non era un fannullone. Andrea era semplicemente malato. Molto malato. Spesso sveniva e perdeva sangue dal naso. Ecco che, in quella domenica dei febbraio 1995, la gente juventina e anche quella non necessariamente partigiana ma soltanto sportiva presentò idealmente e di cuore le sue scuse a quel ragazzo così perbene e a quel calciatore così bravo.Scuse che, da quel giorno e fino a oggi, ventidue anni dopo e poi per sempre, continueranno a essere formulate con intensità seppure alla memoria. Perché Andrea Fortunato, dopo aver vissuto quel giorno a Marassi come l’istante di una miracolosa rinascita, due mesi dopo era morto. L’illusione finiva in pezzi come un cristallo delicatissimo il 25 aprile, giorno della festa della Liberazione.


Una vita bruciata da un lampo. Ventitré anni. Il tempo per un battito di ciglia. Ma anche tantissimo per ciò che seppe regalare a chi ebbe la fortuna di conoscerlo, di frequentarlo, di lavorare con lui e di volergli bene al punto da battezzare un primogenito con il suo nome come fece Stefano Tacconi. Andrea che, per origine etimologica, significa uomo coraggioso e lottatore. Esattamente combattente come fu lui, sino alla fine. Nel suo cognome invece, Fortunato, soltanto la fotografia paradossale e beffarda di un destino bastardo.


@matattachia