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Non ho mai smesso di parlare con lui. La sua voce mi arriva sempre chiara e forte anche se “filtrata” dalla luna. Per ascoltarla, naturalmente, occorre fare un po’ di silenzio isolandosi dal frastuono quotidiano di un mondo sempre più sguaiato e chiassoso. Il fatto che lui “fisicamente” se ne sia andato ventinove anni fa ha un’importanza assolutamente marginale. Un amico non muore mai per davvero. Un amico, di quelli che nel corso di un’esistenza, li puoi contare sulle dita di una sola mano è sempre “contattabile” specialmente nei momenti in cui è forte il bisogno di un sostegno morale oppure quando un senso di solitudine e di inadeguatezza diventa una trappola buia. Gaetano Scirea è un amico. E siccome oggi compie sessantacinque anni è normale che, oltre agli auguri canonici, senta il bisogno di stare un poco con lui per sapere come se la passa.

Più che dire, questa volta, è lui che desidera sapere. Certamente non di Mariella e di Riccardo ai quali ha mai smesso di stare accanto. Lei “sposa in nero” che ha mai più voluto altri compagni. Lui “piccolo orfano” ora a sua volta padre. Con loro Gaetano parla tutti i giorni informandosi sui suoi nipotini. E’ fiero della sua famiglia la quale non ha mai deviato di un solo passo la strada che lui aveva disegnato per l’intera tribù piantando i paletti dell’educazione, della capacità di ascoltare il prossimo, della modestia mai falsa, del saper essere persone tra le persone, della semplicità come regola di vita, della non violenza a tutti i livelli. Il libro dei “comandamenti” di casa Scirea è sempre aperto.

Chiede di una pianta e dei suoi fiori. Domanda di una “bouganville” dai colori rossi e viola della quale lui si occupava nel giardino della sua villetta affacciata sul mare di Andora. Il suo buon retiro, quando non era impegnato a svolgere il ruolo di capitano bianconero, insieme con la casa colonica di Morsasco nel cui vicino cimitero ha trovato residenza eterna. Nessuno glielo ha mai detto, forse, per non dargli un dispiacere ma quella “bouganville” iniziò ad appassire il giorno in cui lui se ne andò dentro quel carro di fuoco in Polonia e poi morì nel momento in cui le campane della chiesa alla Crocetta di Torino battevano a lutto. Anche i fiori hanno un anima e come quello del piccolo ET non resistono alla partenza di un amico.

Chiede della sua Liguria di Ponente e di quella casa nel cui giardino ci si radunava, pochi ma buoni e fedeli, per cenare alla buona con prosciutto e melone bevendo “bianco” di Dolceacqua per chiudere la serata ridendo su ciò che avevano suggerito i tarocchi. Spesso, da Punta Ala, arrivavano Dino e Anna Zoff con il figlio Marco. Le Maldive erano un pensiero lontano ed estraneo. Il fascino del mar Ligure o di quello del basso Tirreno era equivalente a quello dei loro “amanti”, tutte persone perbene dentro la loro armatura di personaggi. Gli dico che la casa c’è ancora. Ma è un tempio alla memoria.

Chiede della sua Juventus e di quella Curva che porta il suo cognome per la quale lui va fiero quando coloro che la occupano non fanno i birbaccioni. Nomi e cognomi dei “nuovi eroi” in bianconero gli dicono poco. Una Babele linguistica per gente destinata ad andare e a venire a seconda delle esigenze mercantili e di bilancio. Per educazione non smoccola, ma si nota che il senso di fastidio è evidente. Lui e il suo gruppo granitico sudavano le classiche sette camice per strappare a Boniperti un aumento di cinquecentomila lire per il rinnovo dell’ingaggio. Ma erano felici. Felici e vincenti. E anche campioni del mondo. Sorride e osserva più in là, dove Enzo Bearzot insieme con Cesare Maldini e Sandro Pertini lo aspettano intorno ad un tavolo fatto di nuvole per una partita eterna a scopone scientifico.

Chiede che cosa sia accaduto all’Italia come Paese e come nazionale di calcio. Dare una risposta alla prima domanda è un’impresa. Forse ne sa più lui che, osservando da lontano, può vedere oltre il presente. La sua Torino è tanto diversa così come il resto di un popolo perlopiù litigioso, perennemente incazzato, sempre più diseguale e anche molto truffaldino come il bomber cascatore che si becca il rosso. Lui, Gaetano, mai espulso intristisce. Ma di Roberto Mancini pensa un gran bene. Certo non è il “Vecio” e neppure “Cesarone” ma la fantasia al potere potrebbe far tornare l’azzurro colore ben vivo e non tenebra come quello raccontato da Arpino.

Manca la torta, ora, con le sessantacinque candeline da spegnere. Lo farà, in privato, dopo con Mariella e Riccardo. Gli propongo un minestrone freddo. Il suo piatto preferito. Come quello che aveva cucinato Mariella per la cena di un ritorno mai avvenuto. Lo mangiammo insieme a lei Zoff, Tardelli ed io. In silenzio. Come regalo una voce. La sua. Quella che racconta la storia della Juventus in un CD registrato tanti e tanti anni fa. Io scrissi il testo. Lui era il narratore. Chi lo desidera può ascoltarlo ancora oggi su Internet. La voce di un amico. Gaetano Scirea per tutti coloro che non hanno tempo o che non riescono a sentire cosa dice la luna.

@matattachia