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Torino a differenza di Napoli non è “mille colori”. Eppure poche tinte le sono sempre bastate per poter riflettere luminosità particolari e talvolta segrete così da poter essere una città comunque speciale. Talvolta difficile da comprendere e persino complicata per se stessa. Sempre coinvolta come cartolina esemplare di tutti i mutamenti in atto nell’intero Paese. Geograficamente appartata e quindi raramente frequentata dal forestiero che solitamente deviava, scavalcandola, per andare a visitare altri luoghi maggiormente promossi dalla propaganda reclamistica. Gli anni della Fiat come motore pressoché unico cementavano il luogo comune che la voleva città “dormitorio” più o meno come l’americana Detroit. Soltanto pochi fortunati e turisti non convenzionali riuscivano a vederla e a scoprirne l’anima rendendosi conto di quanto fosse fascinosa e intrigante malgrado la sua immobilità da bella addormentata. Poi arrivarono i Giochi Olimpici del 2006. L’ultimo regalo che Gianni Agnelli volle fare alla sua città prima di andarsene, consapevole di averla sfruttata per rendere sempre più grande il suo impero. Fu un trionfo.

Due anni dopo ho lasciato definitivamente e volutamente Torino. Era diventata una città completamente diversa da quella dove ero nato a ridosso del dopoguerra. Grazie alle Olimpiadi e al loro effetto mediatico si era illuminata di immenso. Un formicaio poliglotta aveva preso a spargersi per le sue strade e i suoi caratteristici viali alla ricerca di quella grande bellezza che era sempre esistita ma della quale soltanto la gente del posto ne era a conoscenza. Dal Museo Egizio, secondo al mondo dopo quello de Il Cairo, a quello del Cinema, dalla Reggia di Venaria a quella di Rivoli, dal parco del Valentino alla collina di Superga, dalla magia della Gran Madre al misterioso fascino della Sindone, dal Salone internazionale del libri alle “prime” nel teatro Regio Agnolotti e bolliti misti, bagna cauda e cioccolata con panna nei locali con dehor affacciati sulle piazze o sotto i portici. Fermenti culturali di ogni tipo sulla pelle. Poi, alla domenica, la Juventus. Certamente anche il Toro, ma quello soprattutto come evento interno alla storia del popolo granata.

Manco da dieci anni da Torino. Le radici non possono essere recise. La penso almeno una volta al giorno, come credo facesse Eduardo a Roma con la sua Napoli. Immagino e anzi sono sicuro che tornerò soltanto quando dovrò riunirmi a mia nonna Caterina con la quale andavo a raccogliere l’insalata nei prati dove ora ci soni i grattacieli o sulle giostre in Piazza Vittorio, a Carnevale, dove adesso ci sono i parcheggi sotterranei. Torino me la faccio raccontare, più o meno tutti i giorni, da un mio amico fraterno che ogni tanto va a dire una preghiera anche per me nella chiesa di Santa Rita. La vecchiaia, si sa, avvicina al timore di un’eternità buia. Le relazioni, dettagliate, del caro amico non sono consolanti. Viene fuori una cartolina differente dall’ultima che avevo ritagliato nella memoria e forse più simile a quella del passato remoto. Addirittura più brutta e offensiva.

Una città, mi viene detto, che è tornata ad avvilupparsi intorno a se stessa smettendo di svilupparsi o, meglio, di progredire. Nuova nelle e per le pulsioni peggiori come l’intolleranza e la violenza non soltanto verbale. Immobile nella cura e nel mantenimento delle tante preziosità che così rischiano di trasformarsi in reperti di archeologia. Disorientamento politico, anzi ideologico che spinge verso orizzonti cupi di sovranismo antidemocratico. Poca attenzione all’importanza delle infrastrutture con una sola linea della metropolitana che viaggia dritto per dritto escludendo i quartieri che maggiormente ne avrebbero necessità. Resistenza ad oltranza della buona cultura che però è ridotta per numero e avvenimenti ad una sorta di isola felice per pochi coraggiosi. Tenuta, cocciuta e un poco patetica, di quella èlite che fu padrona e che non sembra voler smettere di dettare le regole del gioco. Sempre più ridotto il numero dei forestieri in arrivo da fuori confine.

Sorprendentemente regge e prolifica un solo totem attrattivo. La Juventus con il suo Museo quasi sempre in sold out e con la star Ronaldo che, per vederlo da lontano, partono da tutta Europa. Un po’ poco, direi. Molto poco. Eppure, vie da dire con malinconia, meno male che c’è la Juve. Altrimenti la “mia” Torino rischierebbe di finire in Serie B.