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La Football Association, praticamente l’omologa della FIGC italiana, è stata drastica: o calciatori e staff tecnici si vaccinano tutti entro il 1 ottobre oppure, chi rifiuta il vaccino, non gioca e non scende in campo con gli altri. Decisione giustissima, in modo da scongiurare nella stagione entrante altri casi di covid all’interno dei club con ripercussioni inevitabili sulle gare di campionato e organizzazione generale del torneo.​ In Italia, che si fa? La Federazione su questo non interviene, si attiene alla decisione del Governo, da cui pretende che si tornino a riempire gli stadi coi tifosi vaccinati, e quindi muniti di green pass. Giusto. Ma, come ha fatto notare Stefano Agresti su Calciomercato.com con un articolo del tutto condivisibile, le due iniziative dovrebbero marciare parallele, ovvero tifoserie e giocatori vaccinati. Come sostenuto dalla stessa AssoCalciatori.

Però, come spesso accade, da noi le decisioni si prendono sempre a metà e con logiche assai discutibili. Quando addirittura non le si prende del tutto, vedi la riforma del format Serie A. Di ridurre le squadre del campionato da 20 a 18 – sforzo sovrumano, pare – se ne discute da anni, ma nel momento in cui ci si è decisi a metterlo all’ordine del giorno della Lega, com’era prevedibile si è andati allo scontro e la decisione rinviata sine die. I piccoli club non molleranno facilmente le rendite derivanti da diritti tv e sponsor, e come accade di solito in questo Paese dove le minoranze prevalgono spesso su tutti gli altri, si troverà un accordo soltanto quando i lillipuziani otterranno ciò che vogliono dai giganti. Il ricatto, del resto, è nostro pane quotidiano.

Il presidente federale Gravina, principale sostenitore di playoff e playout per decidere scudetto e retrocessioni, si è limitato alle solite dichiarazioni machiavelliche: “Non si ragioni in termini individualistici ma sul giovamento che porterebbe la riforma all’intero sistema”. Stop. Restando fedele così alla politica FIGC del decidere di non decidere, come già sperimentato dagli juventini sulla vicenda dello scudetto di cartone 2006. In sintesi: la Federazione propone, i club si scannino. Sperando di trovare un accordo per il 2023, data individuata da Gravina per il possibile cambio di format. Ce la faranno? Dubitare è lecito.

L’introduzione di una nuova formula della Serie A di per sé non è sbagliata, se l’intento è quello di ridare interesse al campionato. L’importante è deciderlo per tempo, organizzando tutto per bene e non imponendolo a torneo in corso, come ipotizzato proprio da Gravina durante la fase calda della pandemia nella stagione 2019-2020. In quel caso, la FIGC sembrava pronta ad introdurre i playoff d’imperio, adesso che pare si sia finalmente deciso di avviare la sospirata riforma dei campionati, ecco Gravina preferire una posizione più defilata. Proprio in un periodo storico in cui un maggior coraggio sarebbe auspicabile, soprattutto da parte di chi avrebbe l’autorità per imporsi.

Se Gravina continuerà però a fare come il lupo che abbaia alla luna, come accaduto nella vicenda delle Asl napoletane nella quale non riuscì a tutelare nemmeno i suoi stessi giudici, la Serie A continuerà a essere a 20 squadre, magari pure a 22 in caso di ricorsi al TAR da parte dei soliti scontenti, e ovviamente senza alcun playoff. Servirebbe il coraggio della Football Association inglese, incapace di vincere sul campo con la propria nazionale ma in grado di dare alla federazione italiana una lezione di decisionismo. Gravina prenda esempio.