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Non mi piace fare politica su un sito che si occupa di calcio, però stavolta non ce l’ho fatta. Non come autodifesa del nostro lavoro che appunto di calcio si occupa, e neanche per difendere il ludico quanto effimero gioco del pallone, ma in nome della coerenza e del buon senso ormai smarriti. 
Non si può dichiarare soltanto una settimana prima, come ha fatto il ministro Di Maio, che va scongiurato un nuovo lockdown, perché l’Italia non può permetterselo, e una settimana dopo affermare che “il calcio è un’industria importante, ma non è una priorità”. E quindi si potrebbe anche valutare di fermarlo. Come è già stato deciso per quello dilettantistico e giovanile, alla pari di palestre e piscine. Luoghi  classificati come “non prioritari” dove però i titolari si erano organizzati seguendo alla lettera le regole imposte dalle decine di DPCM emanati finora dal Governo: ingressi scaglionati se non addirittura prenotati (nella mia piscina funziona così), mascherine obbligatorie, disinfettanti, distanziamento anche negli spogliatoi. Tutte le precauzioni del caso. Ma adesso dovranno chiudere fino al 24 novembre, sempre nel frattempo non venga emanato un altro DPCM che ne allunghi l’agonia.

Il calcio professionistico, per quanto non stia troppo simpatico a Di Maio e al suo collega Spadafora, è stato in grado di mettere in piedi un sistema di prevenzione anti Covid molto costoso ma parecchio efficiente. Se esiste una categoria perennemente sotto controllo è proprio, e solo, quella degli sportivi professionisti, calciatori in primis: fanno tamponi quasi tutti i giorni e, appena vengono riscontrati dei positivi in squadra , possono isolarsi dentro le cosiddette “bolle”. Tra l’altro, e per fortuna, tutti quelli che finora hanno contratto il virus sono poi tornati negativi. Tra le donne, il primo caso di positività si è verificato pochi giorni fa, dopo mesi in cui nessuna calciatrice lo era stata. Se ragioniamo, come sta facendo il Governo, ovvero su basi statistiche, il calcio professionistico dovrebbe essere esente da stop. 

Uso però il condizionale perché poi ci sono loro, i ministri Di Maio e Spadafora, ai quali sembra quasi dare un po’ di fastidio che quei miliardari del pallone riescano lo stesso a tenere in piedi i campionati nonostante la crescita esponenziale dei contagi. E quindi, appena possono, buttano lì l’avvertimento: non è detto che il calcio non si fermi. Col sostegno di tutti gli heaters dei social, che godono per qualsiasi cosa possa mandare tutto per aria. Però un conto sono i webeti, un altro i ministri della Repubblica, i quali dovrebbero rallegrarsi che almeno qualche azione di contrasto al virus funzioni. Invece no, ne deprimono gli sforzi, ventilando chiusure in nome del più classico luogo comune del populismo no-limits: il calcio non è una priorità, ci sono cose più importanti.

Certo che esistono cose più importanti, ma è altrettanto importante non fermare qualcosa che funziona ed ha, tra l’altro, uno suo peso specifico all’interno dell’economia nazionale. Deprimerlo significa non rispettare, per non dire fregarsene, di chi nel calcio e attorno al calcio lavora. Un concetto che fa difficoltà ad essere assimilato da Di Maio e Spadafora, più inclini a ricevere l’applauso facile del popolo italiano. Al quale però, proprio in linea col loro populismo, dovrebbero preoccuparsi di regalare almeno lo svago di qualche partita di calcio in un momento così triste della nostra vita quotidiana. L’impressione è invece quella che non vedano l’ora di toglierglielo. Come cantava Jannacci, per vedere l’effetto che fa.