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Dopo il Parlamento, dove si è discusso per tre giorni su come fosse più opportuno chiamare la Meloni (se il o la presidente), adesso il dibattito semantico–lessicale si è spostato alla Juventus, dopo l’eliminazione dalla Champions: lo si può definire un fallimento oppure no? Allegri non vuole sentire pronunciare questa parola (“trovatene un’altra”) perché, a suo dire, “nel calcio ci sono anche le sconfitte” e, come tali, vanno accettate. Certo, ma questa non è stata una sconfitta come le altre, questa è LA sconfitta per eccellenza, per com’è maturata e per il peso specifico che assume per la società, tra l’altro in un momento già complicato di gestione finanziaria. Fare a meno degli introiti UEFA, quando il bilancio segna un rosso di 254 milioni, è una perdita pesante. 
Può capitare di venire eliminati dalla più prestigiosa competizione continentale, era successo anche con Conte nel 2013 (sebbene all’ultima giornata, e con ancora la possibilità di passare il turno), ma non ci si può presentare a Lisbona con la qualificazione già ampiamente compromessa. La Juventus non può perdere 4 partite su 5 del girone, cosa mai verificatasi in tutte le edizioni precedenti, e ridursi ora a sperare che il Maccabi non faccia risultato con il Benfica, rischiando in quel modo di non partecipare nemmeno all'Europa League.
Quattro sconfitte (che con la gara di ritorno con il PSG potrebbero diventare anche 5) e 11 gol incassati: tre in un solo tempo dal Benfica, tre persino dagli israeliani, che da quando partecipano alla Champions non erano riusciti a vincere nemmeno una partita. Numeri che fotografano ampiamente il fallimento, ulteriormente amplificato se ai risultati europei si affiancano quelli altrettanto deludenti in campionato.
Neanche con il tanto vituperato Pirlo, cacciato proprio per ridare il posto ad Allegri, si era assistito a uno sfacelo del genere. Vero che l’Andrea aveva ancora a disposizione una macchina da gol come Ronaldo e in difesa gente come Chiellini e De Ligt, però all’inizio della stagione in corso le aspettative erano comunque differenti, anche per il mercato fatto in estate dalla società dietro esplicite richieste dell’allenatore.
Il quale si difende sostenendo che i migliori acquisti gli sono finora venuti a mancare causa infortuni, oltre a quelli di altri componenti della rosa per il medesimo motivo. Già, ma i troppi e ricorrenti infortuni muscolari (solo Di Maria 3 stop in 2 mesi), problema peraltro già verificatosi la stagione scorsa, non sono sempre e soltanto da addebitare allo sfortuna, come invece fa Allegri. Lui si pone più come vittima degli accidenti e di una rosa che non funziona, piuttosto che come uno dei principali attori della catastrofe, essendo colui che prepara e gestisce quotidianamente la squadra. Che sarà pure piena di “brocchi”, ma se era inallenabile come quella di Sarri, allora Allegri avrebbe fatto meglio a dirlo subito e ad andarsene, in modo da non fare poi da parafulmine nello sfacelo. Invece è rimasto, pretendendo pure che non si pronunci la parola fallimento per i catastrofici risultati ottenuti finora. 
Del resto, il presidente Agnelli cosa aveva detto dopo la sconfitta di Haifa? “Se i giocatori sbagliano un contrasto non è colpa dell’allenatore”, vietato quindi metterlo in discussione. Alla prossima assemblea degli azionisti del 23 novembre, potrebbero però essere quest’ultimi a mettere in discussione lui insieme al suo allenatore “raccomandato”. Quanto a cattiva gestione (voragine nel bilancio e inchiesta Prisma fotografano quella amministrativa), presidente e tecnico stanno andando davvero a braccetto verso il totale fallimento