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La storia di Maurizio Sarri non piace solo per i successi che ha ottenuto o per il bel gioco che ha prodotto. La storia di Sarri piace perché, fino ad un certo punto della sua vita, poteva essere scambiato tranquillamente per una persona normale. Entrando nell’élite del calcio, Sarri ha ridato anche un messaggio di speranza all’intero movimento: quella cerchia ristretta, che sembra sempre riservata a pochi, può essere alla portata di tutti. Dall’idea alla realtà, però, di spazio ce ne passa. Perché Sarri, nel suo ambiente per così dire normale, non si è mai comportato normalmente: al contrario, ha sempre perseguito la sua idea di calcio, adattandosi alle situazioni che ha incontrato, ma con la convinzione che fosse vincente, a prescindere dalla categoria. Per approfondire questo aspetto, abbiamo fatto due chiacchiere con Cristiano Caleri, storico capitano della Sangiovannese (prima di un ultimo passaggio al Pisa), che con Sarri ha condiviso due anni: nel biennio a San Giovanni Valdarno (2003-2005), la squadra viene promossa in C1 al primo colpo e mantiene la categoria con un ottavo posto nel secondo. Caleri, nel 4-2-3-1 del tecnico toscano era uno dei due mediani davanti alla difesa, nel cuore, quindi, di quello che è uno dei reparti più delicati negli schemi di Sarri.

Da centrocampista, la prima domanda viene facile. Cosa ne pensi del centrocampo della Juventus? I nuovi, Rabiot e Ramsey, ma anche i “vecchi” come Pjanic, sono congeniali al suo gioco?

“A Sarri piace concentrare il gioco sul vertice basso della mediana ed è proprio al centrale che chiede di giocare al massimo a due tocchi. Ai due “braccetti”, le mezzali, chiede corsa e inserimento, sempre però seguendo il principio di uno o due tocchi: possesso sì, ma non sterile. Per questo credo che Pjanic abbia le qualità tecniche per seguire quello che gli dirà il mister. Se lo scorso anno giocava diversamente, penso sia più per scelta di Allegri che non per le caratteristiche del giocatore. Ramsey lo trovo molto congeniale, bravo a trovare lo spazio, ma credo che un bel lavoro in prospettiva si possa fare anche su Rabiot. È giovane, ha molta qualità e prestanza fisica. Secondo me può fare bene, se crede in Sarri, potrebbe migliorare e trovare una posizione che lo esalti.

La scelta di venire alla Juventus non è in controtendenza con quello che è il personaggio Maurizio Sarri?

“Io penso che Sarri ami il suo lavoro in una maniera maniacale. È una persona estremamente intelligente e, se ti capita un’occasione come la Juventus è il massimo, non puoi dire di no, soprattutto alla sua età. Nel momento in cui ha messo piede nel mondo Juve, penso si sia reso conto da subito di aver azzeccato la scelta e che può ancora far meglio di quanto abbia fatto. La Juve ha delle basi, delle palafitte radicate così nel profondo, che per lui sono oro per costruire qualcosa di importante.

L’esperienza a Napoli ha dimostrato che per Sarri è importante tanto la coesione in campo, quanto fuori. Ecco, quanto conta il tempo extra-calcistico speso a contatto con i giocatori?

“Io gli ho sempre detto che era un comico. È così intelligente, che anche fuori dal campo è piacevolissimo. A vederlo in conferenza stampa sembra un burbero, ma in realtà è di una squisitezza incredibile, parla di tutto.  Una persona con cui, per dirla alla toscana, ci si sta bene insieme. Ti ammalia come persona e come allenatore, al punto tale che in campo per lui daresti sempre qualcosa in più: poi, ha una conoscenza della materia così profonda che fai fatica a non credergli. Sereno e tranquillo fuori, una belva in campo”.

Quanto c’era del Sarri di oggi nel biennio (2003-2005) che avete fatto insieme?

“C’è molto, perché lui parte da quelle basi lì. Dall’essere rispettoso per quello che fa, concentrato, deciso e cattivo nel fare quello che crede. Il tutto, cercando sempre di migliorarsi, di studiare e di approfondire la materia. Oggi sarà meglio, perché sono passati gli anni ed è cresciuto, ma quella sete di conoscenza è rimasta uguale”. Noi giocavamo con un maniacale 4-2-3-1, poi nella sua carriera ha cambiato tanti schemi: se per questo non è integralista, resta il fatto che la sua determinazione nel migliorare i metodi di allenamento, di studiare l’avversario, di perfezionare il gioco di squadra… ecco, in quello è sempre stato lo stesso.

Fare il “bel gioco” con i campioni è facile. Secondo te, invece, quanto è stato difficile per lui adeguare la sua idea nelle realtà minori?

“Di solito mi fanno la domanda opposta [ride], chiedendomi come sia stato adeguarsi a parlare con i campioni, tralasciando il fatto che, essendo campioni, sanno fare più cose. Nella mia esperienza, mi ha aiutato seguire le sue direttive perché la squadra giocava a memoria. Era riuscito a costruire un ambiente in cui ad ogni movimento che facevi, sapevi dove sarebbe andato il compagno: così, anche se tecnicamente eravamo meno preparati per giocare a due tocchi, bastava un pizzico di intelligenza per vedere le giocate da fare, che erano lì, a nostra disposizione, grazie ai suoi dettami. Questo è successo anche al Chelsea, con Hazard che, se anche avesse più libertà di inventare, dettava i ritmi alla squadra: ad ogni suo movimento, corrispondeva una reazione dei compagni, una reazione studiata a tavolino. L’obiettivo è quello di ridurre al minimo la casualità: se tu, compagno, fai un movimento a caso, metti fuori tempo gli altri. Il dubbio ti crea problemi, per questo l’obiettivo è toglierli durante gli allenamenti”.