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Qualche volta riusciamo a prenderci in giro giocando con l’illusione di essere eterni. Ci sono giorni e lune che ti senti e ti vedi ragazzino alla faccia del vecchio scafandro da sopravvissuto settantenne nel quale sei rinchiuso. Scherzi con la memoria e snoccioli i ricordi come i grani di un rosario laico. I tuoi amici, i tuoi amori, i tuoi miti. Ciascuno con il volto di quelli che erano. Di quello che eri. Non moriremo mai, noi! Pazza idea, ma che bella.

Poi, con il vento, arrivano segnali di imbarazzante crudeltà. Notizie che, appuntite come un coltello, incidono la scorza di quella presunzione di eternità e che penetrando dentro fanno male. Una persona, immaginata inattaccabile dallo scorrere ineluttabile delle cose, se ne è andata. Si stacca, con lei, un altro pezzo importante del passato. Anche del tuo passato. Resti più povero a pensare che sei davvero niente. E ti ritrovi, nudo, ricoperto soltanto di foglie gialle e bagnate dallo struggimento e dalla malinconia. Solitari e randagi dopo essere stati eroi.

L’ultimo ci ha lasciati in un giorno di ottobre riscaldato da un sole d’estate. Si chiamava Roberto Anzolin ed era un gatto. Un gatto con le ali. Quelle che gli permettevano di volare per parare anche la luna. Il “piccolo angelo” per la fantasia e per la penna di Vladimiro Caminiti che lo aveva parafrasato così su ispirazione del dialetto vicentino. Il “mio secondo padre mancato” per Walter Veltroni la  cui passione quasi morbosa per il portiere della Juventus lo aveva portato al punto di chiedere a sua madre di fidanzarsi e di sposare Anzolin dopo che lei era rimasta vedova. Ma lui, il gatto con le ali, aveva già la sua Gabriella la quale a Palermo dove era arrivato per giocare lo aveva conquistato con una pastasciutta alle melanzane. Per il sottocritto l’inizio di una indimenticabile canzone d’autore: Anzolin, Gori, Leoncini….Si iniziava così la melodia di una marcia trionfale culminata nello scudetto della Juventus edizione Sessantasette. L’unico tricolore vinto dal portiere veneto. Uno tra i più belli perché più sofferti sino all’ultimo minuto per la firma di Heriberto Herrera.

Ricordo che, da giovane tifoso, entrai in campo a fine gara per far festa agitando la mia bandiera. Tutti i giocatori a centrocampo ingoiati dalla folla felice. Meno uno. Seduto accanto al palo della porta, un uomo in pantaloncini e a dorso nudo impegnato a fumare con voluttà una sigaretta. Era Roberto Anzolin. Il gatto con le ali, dopo aver fatto per l’ennesima volta il suo dovere, preferiva evitare le esagerazioni della baraonda popolare. Identico sempre e in tutto al suo originale di persona disposta a volare per professione ma decisa a star bene con i piedi per terra dando il giusto valore ad ogni cosa. E forse proprio quel suo essere schivo e niente ruffiano gli vietarono, se non una sola volta, di vestire la maglia della nazionale che pure avrebbe strameritato.

Minuto ma scattante e quasi “gommoso”, come il gatto che era in lui, era amato da tutti i compagni. Addirittura protetto dal gigante John Charles il quale, ogni mattina nel tratto che i giocatori dovevano percorrere per raggiungere il campo Combi dallo spogliatoio del Comunale, se lo infilava sotto il braccio come una baghette parigina e con lui che si agitava in verticale arrivava sul luogo dell’allenamento. Lo vidi proprio così per la prima volta, messo di traverso sotto il braccio di Charles. Ma chi è quello lì? Chiesi. E’ Roberto Anzolin, rispose una voce, il nostro portiere. Il nostro amico. Per sempre.