commenta
Tra le nuove discipline sportive praticate in questi ultimi tempi, il tiro al bersaglio allorchè da colpire c’è la stampa e i suoi operatori sta assumendo una “popolarità” tristemente sempre più diffusa. L’ultimo episodio in ordine di tempo è accaduto ieri notte ad Ostia dove i “soliti ignoti” prima hanno disegnato una croce con la vernice rossa davanti alla porta dell’abitazione  nella quale vive Federico Ruffo e poi hanno versato un bel po’ di benzina oltre il cancello nel tentativo di incendiare la casa. Fortunatamente il proprietario possiede un cane il quale si è messo ad abbaiare richiamando l’attenzione del suo padrone il quale ha provveduto a domare le fiamme.

Federico Ruffo è il reporter che ha realizzato le due puntate dedicate dal settimanale televisivo “Report” dedicate all’indagine sui presunti legami che esisterebbero tra alcune delle più agguerrite tifoserie delle squadre italiane e le organizzazioni malavitose che fanno capo a ‘ndrangheta e camorra per la gestione dei biglietti i cui ricavati milionari servono per foraggiare attività illecite come lo spaccio di stupefacenti o come il traffico di armi. Un legame delinquenziale che, trasversalmente, coinvolge le stesse società di calcio le quali si trovano nelle condizioni di tacere per non dover subire gli effetti di un ricatto in piena regola. Naturalmente chi ha il coraggio di indagare su questi “casi” diventa immediatamente oggetto di ritorsioni, avvertimenti e attacchi mafiosi né più e né meno come per Roberto Saviano.

Probabilmente coloro i quali hanno tentato di incendiare la casa di Ruffo non volevano uccidere, ma sicuramente dare un “segnale” al giornalista affinchè la smetta di indagare su questioni che non debbono essere svelate. Se davvero, come hanno voluto sostenere i garantisti di professione, “Report” avesse sparato alla luna straparlando del nulla per mere ragioni di spettacolarizzazione allora non vi sarebbe stato motivo per reazioni di alcun tipo. Soprattutto non un’azione di portata così “violenta” come quella messa in atto per colpire uno dei responsabili di quelle informazioni “inventate”. Invece è accaduto e ciò provvede a segnalare che i giornalisti di “Report” avevano centrato il bersaglio o che, comunque, il loro lavoro professionale era in ogni caso servito a smuovere le acque limacciose del pantano. E questo lo capirebbe anche un bambino.

Il mondo del calcio, a partire dalla Juventus in poi, dovrebbe  a questo punto allinearsi con il presidente della Regione Lazio, Zingaretti, e con quella parte di società civile i quali hanno già provveduto a annunciare la loro solidarietà al giornalista vittima dell’attentato, fortunatamente sventato, perché proprio per la difesa e per la pulizia dello stesso calcio i ragazzi di “Report” avevano lavorato. L’episodio, tra l’altro, è stato successivo alle tante minacce di morte ricevute dal responsabile del programma, Sigfrido Ranucci, e riportate dai social.

Una inclinazione perversa e inquietante quella che sta dilagando, peraltro sostenuta da alcuni di coloro i quali sino stati eletti democraticamente dal popolo ma che agiscono o parlano in maniera davvero poco democratica. L’attacco molto in voga a coloro i quali lavorano per la verità e naturalmente possono anche commettere degli errori anziché a quelli che la verità la nascondono o la mortificano rammenta tempi bui per il nostro Paese. Un giovane di venticinque anni morì in seguito alla botte ricevute da un commando fascista. Si chiamava Piero Gobetti. Non era una puttana, né un pennivendolo. Era un giornalista onesto e quindi insopportabile per il regime.