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Toglieteci tutto, ma non il Toro! Lo dico, con forza, anche a nome dell’intero popolo juventino, e tenterò di spiegare il senso di un’affermazione così impegnativa. Gianni Agnelli, primo tifoso bianconero ma egualmente grande uomo di sport, sosteneva: “Mi riesce difficile e persino impossibile immaginare un campionato di calcio senza la Juventus e il Torino. Non tanto per la suggestione della rivalità agonistica, quanto per il nome e la dignità della nostra città”. Non vi era alcuna ombra della sua tradizionale ironia in quelle parole. Più emotiva era la reazione di Giampiero Boniperti rispetto alla convivenza delle due entità del pallone. Stimava la storia granata ma, al contempo, andava in tilt alla vigilia di ciascuna stracittadina: “Dipendesse da me cancellerei dal calendario il derby di Torino”. La sua sofferenza, in tribuna, era reale e quasi fisica. Assai meno passionale l’atteggiamento di Umberto Agnelli evidentemente già proiettato verso quel tipo di calcio-finanza che ora vive in pieno suo figlio Andrea. Suggeriva: ”Sia dal punto sportivo e sia sotto il profilo economico non vedo la necessità dell’esistenza di due squadre nella medesima città. Mi auspico, prima o poi, una fusione tra Juventus e Torino”. E’ inutile dire che, come quasi sempre accadeva, aveva ragione l’Avvocato.

Avevo un anno quando, mentre l’Italia intera piangeva, Torino si trasformò in una città di ghiaccio popolata da persone ridotte a statue immobili e silenti. Procedeva per le vie del centro un dolente corteo formato dalla bare che custodivano i resti di ragazzi giovani e forti i quali erano stati convocati tutti insieme e alla medesima ora per un viaggio senza ritorno. Mia nonna mi teneva in braccio affacciata alla finestra. Non posso ricordare. Poi, però, li ho conosciuti strada facendo quei campioni diventati miti. Uno ad uno, nei racconti commossi e commoventi di mio padre che giocava come riserva nella Juventus. Idealmente, allora, abbraccio Gigi Buffon per ciò che ha sentito il dovere di dichiarare pubblicamente condannando e censurando senza pietà i farabutti autori dei graffiti vergognosi scritti sui muri della strada che porta a Superga. Gente vigliacca e priva di dignità umana esattamente speculare ai balordi i quali osano ancora infangare la memoria degli angeli bianconeri dell’Heysel. Il trionfo dell’ignoranza che non ha il diritto di esistere.

Juventus e Torino, infatti, rappresentano altrettanti vasi comunicanti inscindibili i quali permettono alla memoria di far circolare quell’elemento prezioso che si chi chiama emozione. Partendo dalla Storia, naturalmente. Che è storia di calcio ma non solo. La bandiera granata simbolo di una classe operaia che voleva andare in paradiso contrapposta a quella bianconera dietro la quale si trovava appostata la parte più borghese e talvolta nobile di un’intera città. I “cavalieri” di quella “giostra” rappresentavano fedelmente le due differenti situazioni. Agroppi, Ferrini, Poletti, Cereser, Bearzot, Rosato, Combin: Cuore Toro. Furino, Boniperti, Anzolin, Ferrario, Garzena, Sivori, Charles: Cuore Juve. Erano sfide persino mitologiche degne di essere raccontate dai scrittori del romanticismo letterario. Erano battaglie di sudore e talvolta di sangue che usciva dal naso colpito da un cazzotto malandrino. Era “L’Expo” di un tifo che, nella Maratona e nella Filadelfia, si sviluppava come spettacolo puro.

Poi arrivò un sorta di angelo spartiacque chiamato Gigi Meroni. Lui che per non dover “tradire” la causa granata fu costretto a morire ammazzato in mezzo a una strada da un’automobile guidata da Tilli Romero il quale sarebbe poi diventato, per ennesima beffa del destino, presidente del Toro. L’ennesima tragedia a segnare, questa volta, entrambe le squadre e a determinarne il cambio di marcia per stile e per risultati. Perché, sotto le gestioni di Orfeo Pianelli e di Giampiero Boniperti, arrivarono a dirigere le rispettive orchestre due “lumbard” che si frequentavano fin da ragazzini. Gigi Radice e Giovanni Trapattoni i quali provvidero a fare in modo che il derby non fosse più soltanto la partita dell’anno ma una delle tante, seppure emotivamente diversa, per arrivare al successo finale. Meno cuore, forse, ma molta più ambizione legittimata da altri campioni da manuale. Zoff, Bettega, Tardelli, Gentile, Causio, Cuccureddu, Morini: giganti bianconeri. Castellini, Pecci, Graziani, Pulici, Claudio Sala, Caporale, Salvadori: giganti granata. Due gruppi idealmente collegati, per stile e per onestà intellettuale, da due autentici signori come Scirea e Zaccarelli. E quei derby profumavano di scudetto.

I tempi sono cambiati. Il gioco del calcio pure. Oggi la differenza, sul piano agonistico, ha ribaltato i ruoli portando la Juventus un poco ai livelli di quelli che erano rappresentati in Italia e a livello internazionale dai ragazzi di Superga. Il Torino di Urbano Cairo, da parte sua, è comunque una bella e dignitosa realtà per ciò che può permettersi nel mondo del pallone-finanza. Allegri e Mihajlovic gestiscono l’azienda con la necessaria freddezza dei manager. I giocatori, le cui radici affondano perlopiù in terre lontane, oggettivamente non possono “sentire” le voci di coloro che ci sono stati e quelle di chi on c’è più. La squadra della classe operaia è declinata insieme a quella stessa forza sociale svanita. Il simbolo della borghesia anche un po’ nobile diventato patrimonio troppo allargato per potergli trovare una corretta definizione. Ma, come accadrà domani, il derby per novanta minuti sarà quello di sempre. Quello che, come sosteneva l’Avvocato, vedrà una Juventus la quale senza il Toro a farle da contraltare non sarebbe la stessa. E viceversa.