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Da quando ho lasciato la direzione di Tuttosport (gennaio 2008), sono uno dei giornalisti più detestati (per non dire di peggio) da una vasta frangia di tifosi juventini. Evidentemente molti di essi (per non dire tutti) ignorano o non ricordano quanto detto e fatto dal giornale da me diretto all’epoca di Calciopoli. E mi fermo qui per non avviare una reducistica (e patetica) rievocazione. Tuttavia faccio questa premessa perché chi mi conosce dovrebbe sapere che amo la sincerità di pensiero e l’anticonformismo giornalistico più di ogni altra cosa nella professione. 

Così, quando mi capita di parlare di Juve - questa Juve di Andrea Agnelli, Marotta e Allegri -, il piacere di esprimermi senza riguardi va a cozzare contro la fede di chi pensa che una società e una squadra vadano amate e non discusse. Giustificate e non giudicate. Lodate a prescindere e, a prescindere, esaltate per quanto hanno fatto, fanno o addirittura faranno. Purtroppo lo sport non è così. Chi lo racconta lo sa. E chi lo vede, lo legge (o lo ascolta) dovrebbe averlo imparato. Ogni volta si ricomincia da zero e quanto di buono è stato fatto viene accantonato, annullato, resettato.

Così si comportano i grandi campioni, così fanno le grandi squadre. E la Juve, che ha vinto gli ultimi sei scudetti e tre Coppe Italia consecutivi, non fa eccezione. Anzi, non avrebbe raccolto così tanto (più di tutti nelle competizioni italiane) se non avesse dimenticato le conquiste anche più memorabili. Naturalmente, al pari degli juventini più illuminati, sono persuaso che non si possa vincere sempre, né che esista una strada più facile per riuscirci. Eppure ad ogni stagione ai bianconeri si chiede tutto. La Champions prima di ogni altra cosa perché sette finali perse su nove (due negli ultimi tre anni) sono un fardello pesante da accettare. Poi il campionato perché alla Juve se arrivi secondo sei solo un perdente (il concetto di un popolo che, se mi permettete, ha poca cultura sportiva). Infine la Coppa Italia da accompagnare ai piatti forti (scudetto e Champions). A corredo c’è quasi sempre la Supercoppa Italiana che fa curriculum e provoca qualche dispetto.

Io non so se ai tifosi più accesi sia passato per la mente. Ma la stagione 2017-2018, questa, si potrebbe chiudere per la Juve senza la conquista di un trofeo. La Supercoppa è andata (alla Lazio), la Champions è in bilico (per vincere a Wembley serve un’impresa, mentre il 3-3 sarebbe un’anomalia statistica), in campionato il Napoli è in testa e non mi sembra stia perdendo colpi. Resta, almeno in teoria, la Coppa Italia. Dico in teoria perché l’1-0 dell’andata sull’Atalanta è abbastanza rassicurante e perché la finale - Lazio o Milan che sia - è per lo meno abbordabile. Va ricordato, però, che la Lazio (avversario sabato sera all’Olimpico) non solo ha battuto la Juve in Supercoppa, ma l’ha sconfitta, in casa, anche in campionato.

Ora ribadire questi risultati e sostenere che la Lazio è un avversario scomodo per la Juve, significa “gufare” i bianconeri? E pensare che questo potrebbe essere un anno senza titoli è una riflessione così eversiva? Io, sinceramente, non credo. Anzi penso che sia un’eventualità non inverosimile a cui qualcuno si deve preparare. L’ho detto e lo ripeto: non si può vincere sempre. Ma in un club nel quale il motto - rubato da Giampiero Boniperti a Vincent Lombardi - è “vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”, non riuscirci è un dramma. Peggio, un fallimento. Anche perché la Juve non ha solo la squadra più forte, è anche il club più ricco che conta su un fatturato doppio rispetto alle antagoniste.

Se questi sono i presupposti - e lo sono da anni - non credo neppure che la Juve possa accontentarsi di conquistare solo la Coppa Italia. Sarebbe una magrissima consolazione nell’estate in cui, oltre a confermare Higuain e Dybala, la società ha acquistato Douglas Costa e Bernardeschi per una cifra complessiva superiore agli ottanta milioni. E poi sarebbe insopportabile perdere lo scudetto a beneficio del Napoli, di cui tutti dicono meraviglie. Una squadra che per vincerlo potrebbe abbattere il record di Conte (102 punti) e che fa del gioco, non del potere economico, la sua forza e la sua diversità.