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Di lui conservo uno scritto autografo e un ricordo minimalista molto personale. La lettera redatta a mano da lui stesso che Umberto Agnelli mi inviò appena qualche giorno dopo la tragica scomparsa del suo figlio primogenito Giovanni Alberto. Per celebrarne la figura e le opere secondo quel che aveva meritato, avevo pubblicato su Tuttosport uno di quegli editoriali i quali tradizionalmente vanno sotto la voce “coccodrillo” e che vengono dedicati a chi è partito per il viaggio senza ritorno. Quasi sempre, salvo casi davvero speciali, si tratta di un “saluto” pubblico piuttosto formale perché, si sa, i morti in vita sono tutti belli e buoni. Anche quando non è vero.

Scrissi ciò che sentivo davvero dentro ovvero esternando le stesse emozioni che mi toccò con grande dolore replicare qualche tempo dopo quando a lasciarci fu Edoardo, il figlio di Gianni. Del resto “tecnicamente” i due cugini erano il giorno e la notte, ma empaticamente identici e l’uno con l’altro stupendamente sinergici. Ma se l‘Avvocato, secondo il suo stile, decise di non manifestarmi direttamente il suo pensiero in maniera diversa operò Umberto facendomi avere, per posta, quella lettera che non era un semplice biglietto di ringraziamento ma una pagina fitta di annotazioni che mi fecero un gran piacere leggere e conservare con orgoglio.

Il ricordo, invece, appartiene alla sfera molto più domestica e un po’ buffa dell’incredibile numero di sigarette Gauloise che Umberto Agnelli riusciva a “battermi” ogni volta che ci si incontrava per un’intervista. Credo che soltanto Michel Platini sia riuscito a fare di meglio. Tredici anni fa, accompagnato dal canto delle cicale che popolavano il giardino della sua villa ne “La Mandria” dove viveva, il Male provocò il cortocircuito e il rapporto si interruppe bruscamente. Da quel momento la “rispettosa lontananza” è un elemento che riguarda soltanto la memoria.

E allora, sotto questo aspetto, la storia che si può e che si deve raccontare rispetto alla vita e alle opere di quello che fu sempre il “vicere” della dinastia piemontese è molto simile a quelle descritte da Shakespeare nelle sue tragedie più riuscite e visionarie. Dal “Romeo e Giulietta” al “Macbeth”, dalla “Tempesta” all’”Amleto” dove i protagonisti vengono condizionati e talvolta governati dalle stelle e dai loro capricci. Sfidarle, come tentò di fare il giovane Montecchi, non è possibile. E sono state sempre congiunzioni astrali dispettose quelle che hanno determinato il percorso umano e professionale di Umberto Agnelli il quale ha potuto assaporare il gusto del potere e gestire i bastone del comando per tempi e modi troppo veloci rispetto a ciò che, per diritto di successione, avrebbe dovuto e potuto attendersi.

Fin dagli inizi della sua vita pubblica quando Gianni, per tutti, era già l’Avvocato e lui soltanto “Umbertino”. La sua presidenza alla Juventus, seppure geniale con le trovate di Sivori e Charles, venni fatto intendere come una sorta di passaggio obbligato per ciascun Agnelli degno di tale nome. Un “allenamento” per poter affrontare impegni successivi più importanti. Il calcio di quei tempi era ancora principalmente un gioco e non, come oggi, un delicato meccanismo di produttività economico-finanziaria. Quando arrivò il tempo di “fare sul serio” non solo in campo nella stanza dei bottoni entrarono direttamente Boniperti e lo stesso avvocato.

Umberto, allora, decise di deviare e scelse la politica attiva. Troppo poco cinico o, come si dice, figlio di “buona donna” per un mondo così ingannevole e ingannatore lasciò ben presto perdere. Non gli restava che attendere. Nelle anticamere della Casa Madre tipo la “Toro Assicurazioni” o la “Sestriere Spa” affiancato e consolato dal suo Richelieu emergente Antonio Giraudo. Le stelle stavano guardare. Poi anche loro cominciarono la danza dispettosa quando, con la scomparsa del patriarca, il “vicere” divenne ufficialmente sovrano. In Fiat e in Juventus, oltreché per la città di Tirino i cui abitanti continuavano comunque a chiamarlo “Umbertino”. Troppo poco il tempo a sua disposizione per godere finalmente di ciò che, fino a quel punto, gli era stato vietato. E a far calare il sipario furono le stelle, tredici anni fa, accompagnate dal canto delle cicale.