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Quando, in un terribile mattino di cinquant’anni fa, i carri armati sovietici entrarono a Praga l’attuale vice presidente della Juventus, Pavel Nedved, non era ancora nato. Così come soltanto da bambino e sui libri di storia imparò a conoscere il nome di Jan Palach e apprese chi fosse stato quel ragazzo cecoslovacco il quale nel 1969  trovò la forza e il coraggio di immolarsi per un ideale di libertà e nel nome della sua patria oppressa dandosi fuoco in piazza Venceslao.

Trascorsero diciannove anni e nel 1989 il popolo di quello Stato che aveva già dovuto subire la tragedia del nazismo hitleriano volle dire basta anche a quel comunismo reale che, praticamente, si era sostituito all’occupazione precedente. Venne definita, nel mondo, “Rivoluzione di velluto” perché, contrariamente ai tradizionali capovolgimenti epocali della storia, non prevedeva “sangue e nessun prigioniero” ma intendeva raggiungere il proprio fine democratico di socialismo a misura d’uomo attraverso la protesta non violenta. Tant’è in quei giorni, nelle strade di tutte le città e i paesi “cechi”, sfilarono milioni di persone inneggiando al nome di Dubcek, il leader della “Primavera” repressa nel sangue, e ovviamente a quello del giovane studente martire.

Pavel Nedved era uno di quei manifestanti, per le vie di Plzen che venne caricato e pestato dalla polizia di Stato attrezzata per reprimere con le armi russe. Aveva diciassette anni e le idee gi ben chiare. Anche rispetto a quella che lui aveva stabilito dovesse essere la sua professione, Quella del calciatore. Giocava nella Skoda e presto sarebbe passato al Dukla  di Praga. Ma quel giorno non si sentiva affatto l’astro nascente di un pallone che lo avrebbe catapultato nella storia. Lui, quel giorno, volle essere solamente un giovane cecoslovacco che voleva onorare in tutto e per tutto un ragazzo della sua terra il quale aveva preferito una morte orrenda alla schiavitù ideologica e pratica.

Oggi Pavel è vicepresidente di una fra le più grandi società calcistiche d’Europa, la Juventus del suo amico fraterno Andrea Agnelli con il quale continua a giocare a pallone tutti i giovedì dell’anno. Il suo passato professionale non lascia dubbi di sorta su ciò che lui ha rappresentato, sia per il suo Paese che lo ha insignito della medaglia d’oro al merito e sia per l’Italia, nel mondo dello sport. La sua coerenza morale e la sua onestà intellettuale lo hanno ben difeso dalle trappole e dalle finzioni che lo stesso calcio semina come gramigna illudendo e poi tradendo nel nome del successo effimero. La Lazio di Zeman, suo conterraneo, gli è rimasta nel cuore e non la rinnegherà mai. Così come non lascerà mai più la sua nuova casa bianconera per la quale, pur essendo Pallone d’oro, decise di battersi e di lottare anche in Serie B. Un mare di ricordi bellissimi per i suoi tifosi e per lui. Ma se gli chiedete, oggi, quale sia quello che gli riempie l’anima sul serio Pavel Nedved non avrà esitazioni e vi risponderà raccontando di quel giorno in corte per le vie di Plzen a sfidare il potere di Mosca nel nome di Jan Palach. Come se fosse oggi.