commenta
Chi è davvero Beppe Marotta? L’uomo del giorno, colui che ha saputo restituire la Juventus prima all’Italia e quindi all’Europa, resta per certi versi un uomo indecifrabile. Si sa che ha fatto di tutto come dirigente: dal magazziniere nello spogliatoio del settore giovanile del Varese al vicepresidente del settore tecnico della FIGC, esperto di diritti tv, economia sportiva e marketing e ovviamente direttore generale per 40 anni. Uno, nessuno, centomila. Self made man, non c’è dubbio. Beppe è nato sul campo prima che sui banchi di scuola. L’unica vera scuola è stata Coverciano, ai tempi di Allodi, anni ‘70. L’altra, il marciapiede, spesso incandescente dei grandi alberghi milanesi del calciomercato. Nel mezzo un uomo schivo, prudente, che ha fatto del primo non prenderle un motto di vita. Solo così si può pensare di sopravvivere mezzo secolo. Gestire le sconfitte, vendere, con classe, le vittorie. In una parola: meglio un passo indietro ma mai più di uno, per carità. A costo di arrancare, Marotta c’è sempre “stato”. Magari sfuocato, in secondo piano, ma lì, discreto e presente.

Che lavorasse a Ravenna, a Venezia o in qualunque altra periferia del calcio, Marotta ha fatto tesoro degli insegnamenti del maestro Allodi: Esserci. Esserci nei ritrovi per pochi ma buoni, nelle amicizie che durano, nei rapporti che pagheranno. E’ così che attraverso amici fedeli come Braida, Damiani, Sogliano, insomma il calcio padrone della bassa pdana anni 80 caro a Galliani, ha rinsaldato rapporti con chiunque; rubriche di presidenti lunghe chilometri: da Cecchi Gori a Zamparini, via via fino a De Laurentiis, Della Valle, Garrone, Agnelli. E soprattutto una fedeltà cieca verso quei direttori sportivi, Pierpaolo Marino, fratello dai tempi di Coverciano, in primis, che ancora facevano il bello e in cattivo tempo. Ma anche designatori arbitrali, giornalisti, decine di giornalisti, personaggi chiave della paludosa federcalcio, fino ai procuratori male necessario e alla moquette vischiosa di certi uffici UEFA. Biglietto da visita dopo biglietto da visita, mail dopo email Beppe è diventato il più forte e quindi il più bravo.

Non è poco, anzi è moltissimo se eviti decenni di tranelli, maldicenze, ti fai rispettare senza litigare e fai pace comunque anche quando potresti evitarlo perché ormai sei lassù e sono loro a doverti chiamare sperando tu risponda.

In questo ha saputo ereditare da un illustre predecessore, Luciano Moggi, la dote forse più grande: litigare non conviene e se davvero tocca farlo lo si fa ma così, per finta. Tutti possono servire, prima o poi.

Con Moggi ha un’altra caratteristica in comune: non si è mai sentito un intenditore di calcio. Ha sempre preferito circondarsi di esperti purché competenti e soprattutto fidati. Non è un caso, entrambe hanno fatto il marciapiede e sanno bene che il marciapiede non perdona. Sbagliare è troppo facile per scegliere a casaccio. Ognuno al proprio posto, ognuno con le proprie competenze. Dimmi chi comprare e lascia fare a me.

Ma sono solo questi i punti di contatto con Moggi. Troppo differenti i caratteri, se per Moggi il calcio era una giostra dalla quale non avrebbe mai avuto senso scendere, Marotta sa che esagerare non paga. Si guarda le spalle conoscendo la precarietà del suo mondo. Un nulla e potresti ritrovarti a Ravenna, o perfino sul vecchio marciapiede. Una prudenza che costa ansia, nevrosi, logorio. Il tranquillante sciolto nell’acqua prima del match, una passeggiata nervosa intorno alla scrivania, lo sguardo oltre la finestra, il cellulare da torturare, nel mezzo di una trattativa senza pace.

Se Moggi rimediava, Marotta anticipa. Barcellona è già preistoria, il domani una nuova angoscia da sconfiggere.