Non perdeva in casa dal 23 agosto 2015, la Juventus. Era stata l’Udinese, con Théréau, l’ultima a bucarla. Gloria alla Lazio di Immobile, dunque. Ha saputo soffrire, ha saputo reagire. E’ stata una partita gagliarda, più divertente di Liverpool-Manchester United, Allegri era passato al 4-3-3 e aveva rinunciato a Dybala. Le soste, si sa, lasciano sempre scorie. E quando mescoli i moduli, gli allenamenti diventano le partite. Aggiungetevi la panchina di Dybala e la tribuna di Pjanic: fantasia, zero.
Khedira, al rientro, ci ha pure provato. E Douglas Costa, tra i peggiori, aveva addirittura segnato (con il timbro della Var). Ma questi sono. Penso al polverone di Bernardeschi e al rigore della possibile restaurazione, giusto al 94’, ancora su dritta dalla moviola.
Già a Bergamo la Juventus aveva sequestrato l’avversario salvo farsi poi imprigionare. Higuain si è mangiato un quasi penalty, la difesa ha patito i tocchi filtranti, i contropiedi centrali: Luis Alberto la fionda, Immobile il sasso. Doppietta come in Supercoppa, ad agosto, su azione e dal dischetto. Quindici gol in stagione: nei nostri cortili, un fenomeno.
La mano di Inzaghi si avverte nel senso di squadra, che non significa invincibilità. Significa, pazienza, capacità di resistere ai propri errori, e di andare oltre. Come allo Stadium, in avvio di ripresa, quando la Juventus, frenetica, si è allungata consegnandosi a bolge senza vie di tiro. Più si alza l’asticella, più la tiranna si abbassa. I rigori di Dybala sono costati tre punti. Ma quanto avevano fruttato le sue triplette? La verità non va cercata lì. Va cercata, se mai, nella gestione dei dettagli.