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Riceve palla con le spalle girate alla porta. Il suo piede è una calamita. La sfera gli si incolla addosso. Si parlano. Sono amici. Di più. Sono fratello e sorella. Si gira e pensa: “Devi andare là dove ti dico io”. Non è un calcio. E’ una carezza. Lei, la palla, obbedisce a quel tocco che visto dall’esterno pare il fendente della scimitarra saladina ma che, in realtà, è la pennellata di Picasso. Vola, candida come una colomba e fiera come un rapace, dove nessuna mano umana può toccarla. In quell’angolo della porta dove si è infilata, con la destrezza del ladro nella notte, gonfia la rete annunciando al suo mandante che la missione è compiuta. La  “fiesta”, dentro e fuori dal campo, può avere inizio.

La Juventus vola altissima sulle ali di un angelo. La sua gente si accoda in un corteo imponente e impazzito per la felicità. I più giovani annotano nella loro mente la scena di un prodigio che ricorderanno per sempre. I più anziani tornano ragazzini perché sanno e possono dire di aver già visto una simile meraviglia. Tanti anni fa. Sessanta ne sono passati. Omar Sivori segnava così. Paulo Dybala ha segnato così il primo gol che ha messo in riga il Barcellona.

Credo con ferma ostinazione al teorema di Giambastita Vico, il filosofo napoletano, sui corsi e ricorsi storici. Era esattamente il 1957 quando dal tunnel di quello che si chiamava Stadio Comunale di Torino sbucò, per ultimo e volutamente staccato di qualche metro dagli altri, un personaggio speciale anche soltanto a vedersi. Una selva di capelli in testa, arruffati e neri come le piume del corvo, i polpacci delle gambe scoperti perché a differenza di tutti lui portava i calzettoni arrotolati sin sotto le caviglie. Alla cacaiola, coniato Gianni Brera. Compagni e avversari si avviavano verso il centro del campo camminando. Lui, caracollando un poco, sembrava procedere sulle punte come un’ etoile della danza classica. Poi reclamava un pallone, tutto per lui. Lo calamitava al sinistro e volava verso la porta ancora vuota. Al limite dell’area, dopo averle parlato, spediva quel fagotto di cuoio duro in missione. Il popolo dello stadio urlava al gol come se fosse stato vero. Oggi lo chiamerebbero happy hour. L’aperitivo anticipatore di un banchetto sontuoso. Omar Sivori aveva completato il suo rito da indio scaramantico. Si poteva cominciare.

Oggi i tempi sono cambiati. Più tecnologia che sentimento. Più ragione che cuore. Eppure la capriola che Paulo Dybala si inventato dopo il gol ha il sapore suggestivo e paranormale del gesto al quale il suo progenitore calcistico, pamperocome lui, rinunciò mai in carriera. Una firma messa in calce al capolavoro, anziché prima. Di fatto quella riproposta oggi dalla “Joya” è la medesima storia, fantastica e in copia carbone di quella vissuta e goduta pazzamente da noi “vecchi merluzzi” oggi in fase di smobilitazione ma ancora in grado di ricordare con la medesima emozione giovanile spruzzata con un goccio di malinconia. Una storia, destinata a diventare prima mito e poi leggenda, scritta intorno alle figure di due angeli. Uno che aveva la faccia sporca. L’altro che sembra il “bambigesù” di Betlemme. Per il primo i tifosi della Filadelfia composero uno striscione lungo quanto l’intera curva che diceva: “La Juve è grande e Omar è il suo profeta”. Per il secondo è attesa una coreografia altrettanto imponente. Perché, adesso è finalmente ufficiale, Paulo Dybala è il presente e sarà anche il futuro della squadra bianconera.

Un capitolo della “Bibbia juventina” firmato da Andrea Agnelli proprio come aveva fatto suo padre, Umberto, quando “scandalizzò” il mondo del calcio pagando Omar Sivori una cifra mai vista a mai sentita. Ne valeva la pena. Proprio  la presenza e le magie dell’indio fecero in modo che la Juventus diventasse oggetto di passione e di amore trasversali da trasmettere da padre in figlio e a generazioni a venire. Con Dybala, il giovane presidente si è concesso l’opportunità di allungare la filiera del tifo universale. E potrebbe fare anche di meglio se eviterà di frapporre tra il giovane fuoriclasse argentino e il suo prevedibile “juventino per sempre” un ostacolo come quello che interruppe il legame tra Sivori e la sua casa del cuore. Pianse Omar quando fu costretto a lasciare Torino per migrare a Napoli dove pure venne eletto re. Erano lacrime vere. Come la rabbia nei confronti di Heriberto Herrera la cui convivenza era diventata impossibile.
Malgrado questo incidente di percorso, la gigantografia di Omar Sivori oggi campeggia in un corridoio dello Stadium insieme a quelle poche altre degli “immortali” bianconeri. Un giorno, sicuramente ancora molto lontano, a quella immagine-reliquia verrà affiancata la fotografia Paulo Dybala. I due angeli della Juventus. E se per poterne celebrare un terzo dovremo attendere altri sessant’anni facciamocene una ragione e godiamoci fino in fondo quello che il Dio del calcio ci ha voluto inviare.