commenta
Davvero esemplare la prima intervista ufficiale rilasciata da Federico Bernardeschi nel suo ruolo di nuovo giocatore della Juventus. Frasi ricche di spunti per riflessioni assortite e, soprattutto, utilissime per far conoscenza con la persona che spesso non si vuole lasciare indagare preferendo mostrare la sua parte sempre un poco banale e scontata di personaggio. In questo senso il “manifesto” di Bernardeschi non ha lasciato dubbi sulla caratura etica e professionale di un ragazzo le cui radici affondano nella cultura della fatica e del sacrificio quali elementi fondamentali per gettarsi nella mischia e, con saggia consapevolezza, tentare di arrivare a ripagare coloro i quali hanno fatto da supporto quotidiano per la crescita di chi ora si sente giustamente in debito. 

Padre, madre e sorella di Federico sono i cardini di questa porta che si sta spalancando davanti al successo di un giovane carrarino destinato a diventare, dopo Buffon, orgoglio di una terra che trasuda la fatica dei suo abitanti ai quali quasi mai la vita ha regalato nulla gratuitamente. Gente semplice e per questo ancor più meritevole. Proprio come la famiglia di Roberto Baggio devota alle zolle dei campi da coltivare con la schiena piegata.

Ecco cosa unisce, per davvero, un simbolo ormai leggendario dello sport internazionale a quello che potrebbe diventarlo strada facendo. Baggio e Bernardeschi, lontani certamente l’uno dall’altro per ciò che riguarda gli strumenti tecnici dei quali sono provvisti, ma egualmente “paralleli” e persino coincidenti per alcuni aspetti che non sono solamente formali. La medesima provenienza logistica, intanto. Quella Fiorentina che, una volta lasciata per ragioni di carriera, nessuno dei due ha mai pensato di rinnegare. Baggio ne fu innamorato autentico arrivando al punto di rinunciare a battere un rigore contro i viola. La tifoseria bianconera, allora, capì e digerì il boccone. Bernardeschi, salutando la sua nuova casa, ha espresso tutto il suo affetto per il luogo e per la gente che lo avevano custodito a fatto crescere per dodici anni. Il popolo bianconero, anzichè stizzirsi, dovrebbe andare fiero con la certezza di aver a che fare con una persona seria incapace di sputare nel piatto dove si è nutrito.

Ma l’aspetto che più colpisce rispetto a questo parallelismo caratteriale e morale è, secondo me, suggerito dalla scelta del numero di maglia che Bernardeschi indosserà alla Juventus. Una doppia cifra, la “33”, che ai più distratti dirà poco o nulla ma che per lui ha un valore importantissimo. Sono, infatti, gli anni che un “uomo” chiamato Gesù aveva compiuto prima di venir crocefisso in cima ad una montagnola davanti alle mura di Gerusalemme. La figura del Nazareno che, semmai Bernardeschi dovesse sfilarsi la maglia dopo un gol realizzato, tutti potranno vedere tatuata sulla sua schiena. Non un vezzo scaramantico e neppure un esasperato modello di fanatismo religioso, ma molto più semplicemente l’esecuzione di un voto fatto da bambino quando i suoi genitori chiesero la grazia per il figlio dal cuore matto.

Bernardeschi crede fermamente nella potenzialità di un “aiuto” permanente da parte di “chi” lo ebbe già una volta a salvare. E quella sua “33” la indosserà anche e soprattutto come un messaggio lanciato a tutti coloro i quali vorranno capire che esistono cose molto più importanti di un gol. Lo stesso avviso ai naviganti che Roberto Baggio pensò di inviare al pubblico di tutto il mondo indossando intorno al braccio quella fascia bianca corredata dagli ideogrammi di “Soka gakkai” la cui traduzione dal giapponese e per fede buddhista significa “vincere tutto” e non solo in un campo da pallone. Baggio aveva la numero 10. Bernardeschi l’avrà.