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Come per la letteratura mondiale lo è un romanzo di Garcia Marquez, lui per il calcio internazionale è un “classico” intramontabile. Josè Altafini, un nome e un cognome che rappresentano la garanzia per tutto ciò che di bello vi è stato e potrà ancora esserci nel pianeta pallone a patto che i suoi protagonisti siano in grado di compiere un lesto dietrofront morale e pratico rispetto l’insana tendenza che oggi ha ridotto il gioco più bello del mondo ad una sorta di slot machine a mungere e poi sacrificare, una volta spremuta per bene, sull’altare della vanità e dell’interesse personale.

Josè Altafini è un uomo allegro e felice nella vita di tutti i giorni il quale a settantotto anni affronta ancora a muso duro lavorando sodo nell’azienda di Alessandria che fabbrica campi sintetici e divertendosi a fare pubblicità in radio insieme con il suo amico Sandro Mazzola. Ma Josè Altafini è anche uno sportivo autentico, tifoso del Toro (“Sono l’unico granata campione del mondo”, scherza) sicchè triste e nauseato quando gli tocca confrontarsi con la realtà di una professione da lui onorata sempre al meglio e oggi ridotta come una donna di strada, con tutto il rispetto per le povere creature obbligate a vendere il proprio corpo da lochi individui. Il paragone è tutt’altro che forzato o eccessivo.

Dice: “E’ tantissimo tempo che non metto piede dentro uno stadio. Il calcio lo amo e lo guardo in televisione, come un film, perché quel mondo non lo riconosco più come autentico. Il pubblico e i calciatori non hanno alcuna responsabilità per come è stato ridotto l’ambiente del pallone. Il disastro lo hanno fatto i presidenti delle società. Non tutti, naturalmente, ma la maggioranza la quale poi ciascuno è stato costretto a seguire per sopravvivere. Gente come Zamparini, per esempio, che si è arricchito lasciando terra bruciata alle sue spalle. Oppure, per arrivare più in alto e all’attualità più stretta, Aurelio De Laurentiis il padre-padrone di un Napoli prosciugato del settore giovanile amministrato come una macchina da guerra spesso in modo antisportivo da un presidente che di calcio non capisce niente e che trova il modo di mettere in difficoltà un allenatore bravo come Sarri. Povero Napoli, ma soprattutto povera Napoli intesa come città e come comunità di tifosi i quali per troppo amore si lasciano strumentalizzare. Una vergogna”.

La tristezza di Josè Altafini si fa ancor più acuta nell’avvicinamento alla doppia sfida del San Paolo tra Napoli e Juventus. Un doppio confronto altissimo rischio di rischio a causa di tutti i veleni sparsi, volutamente o forse solo sciaguratamente ma la sostanza non cambia, in particolare dal presidente cinematografato. Josè è stato, dopo il Milan, giocatore sia del Napoli che della Juventus. Stagioni indimenticabili, per lui e per il popolo tifoso. Grandi rivalità ma nessun sentimento di odio e nessuna pulsione votata alla violenza. La sua analisi, in prospettiva, è addolorata. “Il disastro ormai è stato fatto con quelle dichiarazioni di De Laurentiis che ogni persona di buon senso dovrebbe censurare. Mi auguro che il pubblico napoletano possa essere più intelligente del loro presidente anche se qualche testa calda in giro, alla fine, c’è sempre. Se fossi il responsabile dell’ordine pubblico nazionale stabilirei di far giocare le due partite a Roma o comunque in una città neutrale. A pagare il prezzo, naturalmente, sarebbero i napoletani e non sarebbe giusto. Ma, come si dice, prevenire è meglio che dover poi piangere. In passato mai sarebbe accaduta una cosa del genere. Il popolo dello stadio era formato da brava gente e i presidenti erano dei signori. Ricordo che alla festa per lo scudetto del mio Milan parteciparono, come invitati, anche Moratti con i figli e i capi della tifoseria interista. Fu una serata bellissima”. Proprio come i suoi indimenticabili “gollassi”.