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Era il 1999, primavera. La Juve viaggiava tra mille travagli: troppi infortuni, a cominciare dai legamenti di Del Piero; risultati decisamente insufficienti in campionato per chi aveva vinto tre degli ultimi quattro scudetti; rinforzi inadeguati arrivati a gennaio (Esnaider ed Henry, non ancora il meraviglioso campione che avremmo ammirato nell’Arsenal e nel Barcellona); il burrascoso addio di Lippi dopo il tracollo in casa con il Parma, a inizio febbraio.

 

Ancelotti, che aveva sostituito Marcello tra gli insulti dei tifosi, stava cercando di raddrizzare la stagione soprattutto in Champions. Eliminato l’Olympiacos, la sua Juve era arrivata alle semifinali. Sembrava un miracolo. E proibitiva pareva la sfida a un Manchester United fortissimo. Non perché i bianconeri fossero da meno rispetto agli inglesi, ma perché la squadra era realmente in difficoltà, gli uomini erano contati e anche i disponibili erano acciaccati, malandati. Eppure, a Old Trafford, quella squadra di grandi campioni, benché mezzi zoppi, arrivò al 90’ in vantaggio (gol di Conte) e subì il pareggio a tempo scaduto (Giggs, 1-1).

 

Sull’aereo di ritorno, Manchester-Torino, vedevamo solo facce entusiaste e quasi incredule: nessuno pensava di tornare dall’Inghilterra con la finale a portata di mano. Solamente un volto era cupo: quello di Ciro Ferrara. Lasciato fuori dall’amico Ancelotti - assieme avevano giocato a lungo in Nazionale -, non aveva digerito l’esclusione. Era l’orgoglio del campione che voleva essere protagonista: non gli erano bastati quei venti minuti giocati a fine incontro a Old Trafford. Eppure Ancelotti aveva visto giusto: Ferrara non era ancora tornato quello che tutto il mondo conosceva, soffriva ancora la terribile frattura di un anno prima, era completamente fuori condizione.

 

Ancelotti probabilmente si fece condizionare dall’umore, anzi dal malumore dell’amico. Al ritorno lo buttò dentro: errore fatale. Ferrara non stava bene, fu tra i protagonisti negativi del 2-3 che eliminò la Juve nonostante la doppietta di Inzaghi nei primi dieci minuti di partita. Fu una lezione, pensiamo, per Carletto: riconoscenza e sentimenti non possono contare quando decidi la formazione per una grande partita.

 

Ecco, questo episodio ci è venuto in mente quando abbiamo visto Barzagli, Bonucci e Chiellini tutti assieme in campo a Firenze. Abbiamo pensato che Allegri li avesse schierati un po’ per affetto (due scudetti vinti assieme creano legami fortissimi) e un po’ per stima (hanno sempre rappresentato la base della sua Juve). Ma non stavano in piedi: Bonucci non era Bonucci; Barzagli era lontano parente di Barzagli; Chiellini non era nemmeno la controfigura di Chiellini. Osservando in panchina Rugani, il miglior difensore bianconero dell’ultima parte di stagione, ci siamo convinti che Allegri avesse clamorosamente sbagliato le scelte. Come fece Ancelotti in quella primavera di diciotto anni fa. Ma stavolta, almeno, la Juve non è stata eliminata da niente.