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Il rito, andato avanti per quindici anni, era questo. La vigilia di Natale, a mezzanotte, lui entrava nella chiesa della Gran Madre a Torino. Lo aspettavo fuori. Non per sgarbo e per disattenzione verso la fede, ma perché la celebrazione della Messa mi riportava ai tempi della personale “mala education” subita ai tempi del ginnasio da certi “cattivi maestri” salesiani i quali, contrariamente alla regola voluta dal loro padre fondatore Giovanni Bosco, sembravano impegnarsi al massimo per rendere la religione e la preghiera una sorta di gabbia persecutoria piuttosto che la strada maestra per poter raggiungere il Misericordioso. Non volevo farmi sangue cattivo proprio quella notte magica. Preferivo, dunque, sostare sulle scale di quel bellissimo e misterioso tempio riflettendo in beata solitudine aspettando che lui tornasse dopo aver recitato un “Avemaria” anche per me. Poi si andava a piedi verso casa mia che non era lontana. Lui, principe senza corona e senza scorta. Io, affabulatore senza platea. Due amici nella notte. La notte di Natale.

Nell’appartamento dove vivevo, in  Lungo Dora Voghera, mentre si aspettava che l’acqua per la pasta prendesse il bollore scartavamo i regali. Sempre quelli eppure ogni volta apprezzati con manifesta sorpresa. Edoardo Agnelli si trovava tra le mani l’ultimo cofanetto che raccoglieva cinque libri appena usciti per la griffe dalla preziosa editrice siciliana Sellerio. E mentre lui sfogliava le pagine, annusandole come fa ciascun buon lettore, io avevo già in bocca uno delle chicche che mi aveva regalato. Cominciavo, sempre, con un cremino. Il Giuadujotto lo avrei tenuto per ultimo, come fanno i bambini con i dolci che preferiscono. Non avevo manco bisogno di leggere la marca di quei deliziosi cioccolatini. Bastava il profumo, appena scartato, a rivelare che quell’opera d’arte per golosi era stata creata dalla Premiata Pasticceria Reale Peyrano.

Oggi vengo informato che il luogo più dolce e più profumato di Torino chiuderà i battenti e che nel mitico negozio di Corso Vittorio Emanuele la polvere del tempo andrà a coprire i ricordi di almeno tre generazioni. Tutti a casa, dipendenti e clienti affezionati. La signora Peyrano non è più in grado di far fronte, come tanti altri bravi artigiani, alle invasioni barbariche della produzione globale dal gusto unico e privo di anima. Così Torino, dopo il cinema e l‘automobile e la grande moda, perde anche uno degli ultimi pezzi per il quale era diventata famosa nel mondo. Il cioccolato di casa Peyrano. Che, poi, era anche casa Juventus.

Sì, perché per anni e anni la pasticceria di Corso Vittorio era stata punto di riferimento quotidiano per la juventinità praticante (dirigenti e giocatori) e per quella tifosa un po’ blasè. Un aperitivo, prima di colazione. Una tazza di cioccolata calda fumante con dentro la panna per i più golosi, al pomeriggio. Un Punt e Mes con lo stuzzichino, prima della cena. Spumante per tutti quando la Juve vinceva. Offriva la casa. E tutti i clienti, nessuno escluso, lasciavano il cale con in mano un sacchettino pieno di cremini, giandujotti e preferiti a liquore rigorosamente prodotti uno per uno da mani sapienti. Fuori, poco distante lungo il corso verso il fiume, la celebre panchina sulla quale i ragazzi del liceo d’Azeglio fondarono la società bianconera. E non era certamente un caso se la famiglia Agnelli aveva eletto la Pasticceria Peyrano come sua fornitrice ufficiale per soddisfazione propria e per quella degli amici o conoscenti quando era tempo di fare un regalo. Ora resteremo tutti con l’espressione un po’ così. Un oceano di ricordi nella mente e l’amaro in bocca.